Il conflitto in Ucraina, che vediamo come l’attacco di un Paese dispotico contro un altro in cerca di libertà, è solo un aspetto di un fenomeno più ampio. Paradossalmente, l’incendio che ne è scaturito potrebbe propagarsi anche altrove.
Lo storico Francis Fukuyama lo ha detto chiaro: l’invasione dell’Ucraina non la si può classificare come una guerra tra Kiev e Mosca e neppure come un conflitto tra la Russia, l’Europa e più in generale l’Occidente. Qui si combatte una battaglia decisiva tra democrazie e regimi autoritari. Certo è importante capire ciò che sta accadendo sul terreno, se i carrarmati di Vladimir Putin riescono ad avanzare o se l’esercito di Volodymyr Zelensky è in grado di respingerli. Così come non si può non guardare all’eroica resistenza ucraina nelle città martoriate dall’artiglieria russa, né non provare commozione di fronte a milioni di donne e bambini in fuga dai missili e dai cecchini.
Tuttavia, questo è solo un aspetto del problema che abbiamo di fronte, perché ciò che si è messo in moto nella notte fra il 23 e il 24 di febbraio, con l’ordine di attacco impartito dal Cremlino, è qualche cosa di più grande, che segna un cambiamento del mondo, un passaggio da un periodo a un altro.
Il fenomeno era già in atto prima che scoppiasse la guerra in Ucraina, ma nessuno o quasi se n’era accorto, presi come eravamo da altri problemi, ossia dal dibattito su come fermare il surriscaldamento del pianeta e come curarci dal Covid. Ma mentre noi discutevamo di transizione ecologica e di vaccini, altrove qualcuno progettava una transizione politica, per spingere il mondo verso un sistema in cui gli ideali liberal-democratici non avessero diritto di cittadinanza.
Oggi il nostro sguardo è attirato da quel che succede in Ucraina, ma forse lo dovremmo rivolgere anche altrove, osservando ciò che sta accadendo in Cina, Turchia, Corea del Nord, Africa e Sud America. Alla fine dello scorso anno, l’Istituto internazionale per la democrazia e l’assistenza elettorale, con sede a Stoccolma, ha pubblicato un rapporto allarmato sullo stato delle democrazie nel mondo, segnalando che per la prima volta dopo parecchio tempo i regimi autoritari hanno superato quelli democratici.
Secondo Idea, negli ultimi anni, il 30% dei Paesi in cui i diritti civili erano sotto minaccia sono diventati delle vere e proprie dittature e tra questi cita Nicaragua, Russia, Turchia e Venezuela. E tra il 2020 e il 2021, quattro nazioni hanno cessato di essere democrazie: Mali e Myanmar a seguito di un colpo di Stato, Costa d’Avorio e Serbia per effetto di misure ritenute illiberali. Risultato, più di due terzi della popolazione mondiale vive oggi sotto regimi autoritari o democrazie incompiute, dove la libertà di stampa, di opinione, ma anche i diritti alla difesa e le tutele contro gli abusi delle forze dell’ordine non sono più garantiti.
Ma se questo è lo scenario in cui viviamo e di cui non ci siamo accorti, si capisce che la guerra in Ucraina, che oggi noi guardiamo come l’attacco di un Paese dispotico contro un altro in cerca di libertà, è solo un aspetto del fenomeno in corso. E paradossalmente, l’incendio che ne è scaturito alle porte dell’Europa potrebbe propagarsi anche altrove: non sto pensando ad altre guerre, anche se i missili sparati da Kim Jong-un contro il Giappone non possono lasciare tranquilli, così come inquieta l’aggressività di Cina e Turchia.
Penso anche agli sconvolgimenti economici innescati dal conflitto fra Ucraina e Russia, che rischiano di destabilizzare le già fragili democrazie. L’aumento del prezzo del metano, gas con cui alimentiamo gran parte delle nostre centrali elettriche, non solo sta mettendo in difficoltà molte famiglie, ma rischia di far saltare intere filiere produttive. La questione riguarda noi, come anche la Germania e gran parte dei Paesi europei. E se a Putin riuscirà la manovra di convertire i pagamenti del petrolio in rubli e non in dollari, potremmo trovarci nella condizione di non poter pagare il gas e dunque restare al freddo oppure di contribuire alla distruzione della supremazia del dollaro negli scambi commerciali, con tutto ciò che ne consegue.
Ripeto, la guerra è un aspetto, grave ma non il solo, perché ciò che potrebbe derivare da un prolungamento del conflitto è una destabilizzazione globale, con la saldatura di interessi fra regimi autoritari, come Cina e Iran, Arabia e India. I primi effetti potrebbero colpire proprio la moneta americana, con il via a transazioni in yuan o rupie per l’acquisto di petrolio e gas. Certo, gli Stati Uniti hanno ancora l’arma della globalizzazione, ovvero del commercio internazionale, e Paesi come la Cina potrebbero temere di venirne esclusi; tuttavia, i danni che ne deriverebbero non li sopporterebbe solo Pechino, ma anche l’intero Occidente.
Come si è visto, le sanzioni non colpiscono soltanto chi le subisce, ma anche chi le impone. Per l’Italia, gas a parte, l’embargo contro la Russia significa non esportare più beni di lusso, vino e prodotti lavorati, ma anche non importare più e dunque non avere l’acciaio necessario alla nostra industria, il legno indispensabile per i nostri mobilifici, la farina per i pastifici e i fertilizzanti per i campi. Ovvio, si possono trovare soluzioni alternative, ma ci vogliono tempo e denaro. E Paesi che rischiano di scivolare nella recessione non hanno né il primo né il secondo.
Insomma, le democrazie si sono fatte trovare impreparate in questa fase storica. E pensare che la guerra si possa vincere solo sul terreno delle armi, spedendo mitragliatrici e lanciarazzi agli ucraini, per sostenere una battaglia di libertà, penso sia un po’ ipocrita e anche un po’ inutile. Perché il conflitto non riguarda solo Kiev. Molti sostengono che, dopo l’invasione dell’Ucraina, niente sarà più come prima. Sì, lo credo anche io. Forse Putin sarà bandito dal mondo civile, come accadde con Saddam Hussein, ma il problema è se il mondo civile sarà ancora quello che conosciamo.
