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Governo tecnico? No, grazie

Governo tecnico? No, grazie

L’editoriale del direttore

Non esiste Paese democratico al mondo dove per dieci anni gli elettori non abbiano espresso il presidente che li doveva guidare.


Nei giorni della crisi di governo mi è capitato di riflettere su alcune peculiarità italiane, che rendono il nostro Paese unico al mondo. Non penso alle opere d’arte, di cui disponiamo in misura tale che le lasciamo marcire in cantina. Né mi riferisco alle località di villeggiatura, che pure sono talmente numerose e belle da averci indotto a rovinarle. No, parlo di politica e in particolare di chi ci rappresenta, che da troppo tempo non è scelto da chi lo dovrebbe scegliere, cioè dagli italiani.

Nel 2011, dopo un governo regolarmente voluto dagli italiani, con Silvio Berlusconi presidente, venne quello di Mario Monti, un professore della Bocconi che in pochi, salvo gli addetti ai lavori, conoscevano. L’ex rettore fu voluto da Giorgio Napolitano e molto probabilmente dai leader europei più forti in quel momento, ovvero da Angela Merkel e da Nicolas Sarkozy, ma certo non dagli elettori.

Poi, dopo il voto del febbraio 2013, arrivò Enrico Letta, che era un parlamentare e pure il vicesegretario del Pd, ma non il candidato premier del Partito democratico. Per quella carica, gli elettori di centrosinistra avevano scelto Pier Luigi Bersani, non l’etereo nipote del più noto Letta, ossia Gianni, consigliere principe di Berlusconi. A Palazzo Chigi, il nipotissimo durò meno di un anno, perché come è noto, Matteo Renzi, che pure aveva perso le primarie contro Bersani, si ricandidò contro Gianni Cuperlo e Giuseppe Civati, cioè il niente, e una volta conquistato il Partito democratico si prese anche il governo. In pratica, tre presidenti del consiglio uno dietro l’altro che gli italiani non si erano scelti.

Non è finita. Nel 2016, dopo le dimissioni di Renzi a causa del referendum costituzionale perduto, è stata la volta di Paolo Gentiloni, non proprio il primo della fila, anzi. Nel Pd era considerato il più innocuo e per questo il Bullo lo scelse, suggerendolo a Mattarella: l’allora ministro degli Esteri doveva servire a tenere in caldo la sedia al segretario del Pd, il quale, uscito dalla porta per via del plebiscito contro di lui, sperava di rientrare a Palazzo Chigi dalla finestra. Come è noto non andò così, perché anche Er Moviola (questo il soprannome dell’attuale commissario Ue) s’innamorò della poltrona al punto da non volerla lasciare.

E così eccoci arrivati al giugno del 2018, quando dal cappello di Luigi Di Maio, con l’avallo di Matteo Salvini, è spuntato Giuseppe Conte, all’epoca orgogliosamente sovranista e populista. Chi fosse quel tipo azzimato gli italiani non lo sapevano. Non lo conoscevano gli elettori grillini, che speravano di mandare a Palazzo Chigi Beppe Grillo sotto le mentite spoglie di Di Maio. Men che meno ne era a conoscenza chi aveva votato Lega, che voleva come presidente del Consiglio Salvini.

Il leader politico dei 5 Stelle e quello del Carroccio si dovettero invece accontentare di fare i vicepremier e di lasciare il posto da premier a quello che fu subito definito dalla grande stampa il loro vice. Risultato, a guidare il Paese fu un altro non eletto dal popolo. Che poi, nel settembre del 2019, succedette a se stesso, ma con un’altra maggioranza. E così arriviamo ai giorni nostri, febbraio 2021, dieci anni dopo le dimissioni di Berlusconi, l’ultimo leader politico che gli italiani abbiano scelto di mandare a Palazzo Chigi.

Che dire: non esiste alcun Paese democratico al mondo dove per dieci anni gli elettori non abbiano espresso il presidente che li doveva guidare. In Spagna, dove pure dalle elezioni non è uscita una maggioranza chiara, ci hanno provato quattro volte prima di affidarsi a Pedro Sánchez. In Belgio, dove sono abituati alle crisi di governo e anche a rifare i gabinetti (Guy Verhofstadt ne cumulò tre, uno dietro l’altro) sono riusciti a rimanere per 600 giorni senza averne uno. E in Israele, non essendo riusciti a cacciare Bibi Netanyahu, hanno continuato a provarci fino a che hanno dovuto arrendersi a una coabitazione ma fra due mesi si vota di nuovo. Cioè, nei Paesi democratici, che ci sia la crisi economica o la pandemia, quando non c’è accordo su un esecutivo si vota, non si cerca un tecnico da mettere al posto di un politico, sospendendo la democrazia e decidendo al posto degli elettori.

Una delle frasi più gettonate di questi giorni (l’hanno pronunciata sia Renzi sia Zingaretti) è stata la seguente: non vogliamo regalare il governo del Paese alla destra. Ma la guida dell’Italia non è un regalo di questo o di quel leader di partito: a scegliere da chi farsi governare, secondo la Costituzione, devono essere gli italiani, non i capi bastone di una fazione. Lo stesso si può dire dell’altro argomento che viene spesso citato (sempre da Renzi): non vogliamo dare i pieni poteri a nessuno. Ma per pieni poteri non si intende una dittatura, significa solo poter governare senza subire il ricatto di partitini come Italia viva. Quando Matteo Salvini li chiese, non aveva intenzione di marciare su Roma o di sospendere la democrazia, ma solo di sottoporsi al giudizio degli italiani. Ossia chiedeva proprio quelle elezioni che Renzi e gli altri vedono come la peste.

Due ultime annotazioni: nel 2011, quando Berlusconi fu costretto alle dimissioni per il disastro dei conti pubblici, il debito dello Stato sfiorava i 1.900 miliardi di euro. Dieci anni, sei governi non scelti dagli elettori e una pandemia dopo, siamo a 2.600 miliardi. Nel 1991, prima di Tangentopoli, il debito pubblico assommava a 1.180 miliardi di lire, alla fine del 1994, dopo il primo di una serie di governi tecnici, quello guidato da Carlo Azeglio Ciampi, eravamo a 1.781 miliardi. Non c’è altro da aggiungere: i governi tecnici, i presidenti per caso e quelli per forza non ci hanno aiutato a rimettere a posto i conti, ma solo a non votare.

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