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Chi indossa la toga e sbaglia, non paga mai

Chi indossa la toga e sbaglia, non paga mai

L’editoriale del direttore

I magistrati che amano e fanno con scrupolo il proprio mestiere (tanti) dovrebbero scioperare contro le anomalie che nel corso degli anni hanno indotto gli italiani a non credere più nella Giustizia.


Anche se la Costituzione dice che la legge è uguale per tutti, e dunque ogni cittadino deve godere degli stessi diritti e delle stesse tutele, ogni giorno la Giustizia si incarica di smentire il principio stabilito dalla carta su cui si fonda la nostra Repubblica. Vi chiedete di che cosa stia parlando e perché, mentre l’attenzione del mondo è rivolta a quel che accade in Ucraina, mi metta a discutere di questioni giuridiche? Beh, i motivi per parlare di come funzionano i tribunali in Italia e se sia rispettato il dettato costituzionale sono almeno due. Il primo è costituito da una testimonianza di trent’anni fa di cui si erano perse le tracce. Giovanni Falcone, prima di essere ucciso nella strage di Capaci, rilasciò un’intervista a Luca Rossi in cui raccontò i guai della Giustizia e anche i suoi. Il colloquio uscì postumo su Panorama, ma passati tre decenni rimane di straordinaria attualità, soprattutto se confrontato con la retorica con cui si è voluto ricordare l’uccisione del magistrato che ebbe il coraggio di processare i boss. Falcone parlò di mafia, ma soprattutto di magistrati, puntando il dito contro i colleghi, le correnti, il Csm, a suo dire causa di molti mali. A rileggere oggi quell’intervista c’è da rimanere di sasso, perché, proprio come nel paese dei gattopardi, nulla è cambiato.

Il secondo motivo per cui è necessario discutere di Giustizia è dovuto al fatto che il 12 giugno si vota. Non lo sa quasi nessuno, ma gli italiani sono chiamati a esprimersi su una serie di quesiti referendari che riguardano la magistratura. La sinistra, ma anche le toghe, vorrebbero che le cinque richieste di abrogazione sottoposte al giudizio degli elettori non raggiungessero il quorum, e per questo non c’è giornale o televisione che si sia presa la briga di informare l’opinione pubblica. Ma nonostante la congiura del silenzio, il voto è un piccolo passo per rispettare il principio per cui nessuno, nemmeno un magistrato, può essere al di sopra della legge. Chi sbaglia paga, dice il proverbio. Ma chi indossa una toga, anche se sbaglia non paga mai e sebbene la Corte costituzionale abbia bocciato il referendum sulla responsabilità delle toghe, ne è rimasto in piedi uno sulla professionalità di chi amministra la giustizia, con tanto di pagelle da compilarsi a cura degli avvocati.

Dicevo prima che il principio scolpito in ogni aula di tribunale, ovvero che ogni cittadino è uguale davanti alla legge, non è rispettato e per spiegarvelo porto una mia diretta esperienza. L’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto numero di errori giudiziari, prova ne sia la quantità di risarcimenti per ingiusta detenzione. Negli ultimi 4 anni la spesa per risarcire persone finite in carcere senza ragione ha superato i 180 milioni. Nel solo 2020 si sono sfiorati i 50 milioni, una cifra che credo lasci a bocca aperta, soprattutto considerando che, se estesa agli ultimi vent’anni, porta a somme da capogiro vicine al miliardo. Tuttavia, non è questo il punto. Secondo le statistiche del ministero, per ogni giorno di ingiusta detenzione lo Stato ha pagato un risarcimento che oscilla, seconda i casi, fra 120 e 800 euro. Detta in parole semplici, la vita di una persona privata della libertà nonostante fosse innocente vale poche centinaia di euro al giorno. Vi mettono le manette, vi sottraggono agli affetti più cari, vi distruggono la carriera e l’immagine e, una volta scoperto che non avete commesso reati, vi riconoscono meno di quel che voi sareste costretti a pagare a un artigiano per una giornata di lavoro. Il vostro danno, familiare e reputazionale, vale quanto la chiamata di un idraulico in caso di guasto.

Bene. Anzi, male. Ma ora tornate a quella frasettina della Costituzione che recita «tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge» e pensate a un magistrato che, invece di essere ingiustamente arrestato, venga ingiustamente accusato dai propri colleghi di essere corrotto e dunque indagato. I giornali ne danno, come è ovvio, notizia, così come danno notizia di ogni persona arrestata su ordine della magistratura, anche se magari dopo un po’ si scoprirà che quel mandato di cattura non era giustificato e la persona tradotta in carcere era innocente. Ecco, adesso mettetevi nei panni di un giornalista che dovendo raccontare la storia di giudici finiti nel mirino dei colleghi dia conto in 20 battute tipografiche del caso di un magistrato sotto inchiesta. La toga in questione era accusata di aver asservito la propria funzione a interessi personali e per questo iscritta nel registro degli indagati. Il cronista ne scrive e, per sua sfortuna ma fortuna del giudice, proprio mentre viene mandato in stampa il giornale, le accuse decadono e vengono archiviate. Le rotative, come si sa, non hanno lo stesso tempo della Giustizia e nemmeno godono delle attenuanti che il Csm riconosce ai colleghi in toga che spediscono gli innocenti in carcere. Dunque, una volta stampata la notizia dell’indagine a carico del magistrato – liquidata, ribadisco, in venti battute tipografiche, ossia un paio di righe all’interno di un articolo, neppure richiamate in un titolo, in un occhiello o in una fotografia -, il giudice indagato e successivamente prosciolto sente l’impellente bisogno di ripristinare la propria reputazione, non con una lettera di rettifica ma chiedendo il risarcimento per il danno patito. Richiesta presentata non già ai colleghi che l’hanno indagato, ma al cronista che ha vergato le due righe tipografiche.

Risultato, un altro giudice, cui il presunto diffamato si è rivolto, ha riconosciuto che quelle frasi, pubblicate da Panorama in riferimento a un fatto vero ma ormai superato da una successiva ma sconosciuta ai più archiviazione, sono diffamatorie e dunque ha condannato il direttore, il giornalista e la casa editrice al pagamento di un risarcimento complessivo di spese legali di 62 mila euro. Non entro nel merito di dove stia la diffamazione, soprattutto visto che la notizia dell’archiviazione è contestuale alla pubblicazione dell’articolo inerente all’indagine, ma voglio tornare al famoso principio sancito dalla Costituzione: tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Se un italiano è ingiustamente arrestato viene risarcito con una cifra che oscilla fra 120 e 800 euro, mentre se un magistrato è oggetto di articolo ritenuto diffamatorio ricava esentasse un rimborso di 3.100 euro a battuta, spazi e interpunzioni compresi.

Lo so, è un piccolo esempio e neppure il più grave di quelli che giustificano le ragioni per cui gran parte degli italiani desiderano decapitare la casta dei magistrati. Tuttavia, credo che sia significativo. Se un giorno di ingiusta detenzione di un cittadino vale 120 euro, come può una vocale o una virgola, per quanto ritenuta diffamatoria, valere 3.100 euro? La legge è uguale per tutti, fatta eccezione dei magistrati? Oppure c’è una norma da tribunale speciale che prevede un aggravio di pena per i giornalisti che hanno il coraggio di parlare delle toghe? Di recente i magistrati (pochi) hanno scioperato contro le riforme che li riguardano. Ma quelli che amano e fanno con scrupolo il proprio mestiere (tanti) dovrebbero scioperare contro le anomalie che nel corso degli anni hanno indotto gli italiani a non credere più nella Giustizia.

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