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Giustizia per Camilla

Giustizia per Camilla

L’editoriale del direttore

La tragica storia di Camilla Canepa, morta a 18 anni dopo una somministrazione di vaccino AstraZeneca. Dopo di lei, sono deceduti anche il nonno e il papà.


L’hanno dimenticata tutti, perfino l’Aifa, che nel suo rapporto sugli effetti avversi dei vaccini non la menziona nemmeno a fini statistici. Ma lui no, lui non poteva dimenticarsela. Roberto Canepa, 53 anni, era il papà di Camilla, una bella ragazza di 18 anni che abitava a Sestri Levante, in Liguria. Il 25 maggio dello scorso anno, la giovane partecipò agli open day dell’iniezione anti-Covid e il 10 giugno, cioè 16 giorni dopo, morì all’ospedale San Martino di Genova.

All’inizio, il decesso sembrava colpa sua, di Camilla. I giornali, imbeccati non si sa da chi, scrissero che aveva qualche strana malattia congenita e che, porgendo il braccio ai sanitari, non l’aveva dichiarata. Negligente, insomma. Lei, non chi le aveva somministrato un farmaco, AstraZeneca, che già aveva sollevato parecchi dubbi. Infatti, c’era già stato uno stop delle autorità sanitarie a seguito di alcune reazioni avverse. E poi era arrivata una disposizione che suggeriva di somministrare il vaccino anglo-svedese solo agli ultrasessantenni.

Invece, quel maledetto maggio di un anno fa, le porte dell’hub vaccinale del Levante ligure si spalancarono anche ai ragazzini. Non so perché Camilla si era affrettata a fare l’iniezione. Forse, da studentessa e sportiva (giocava a pallavolo), voleva tornare a un’esistenza normale, senza l’incubo di ammalarsi di Covid.

Probabilmente voleva fare la vita che fanno tutti i giovani della sua età: uscire la sera, fare un aperitivo, incontrare gli amici e magari, appena fosse stato possibile, perché no, andare in discoteca. Oppure, semplicemente, voleva evitare di rischiare di contagiare la famiglia: il papà, la mamma, i nonni. Camilla aveva una vita davanti e tanta voglia di viverla, ma nessuno l’avvertì di quello che in quei giorni alcuni esperti sussurravano in privato: i rischi maggiori, con AstraZeneca, li correvano le giovani donne. E che qualche pericolo ci fosse era chiaro fin da due mesi prima che Camilla si facesse vaccinare.

Ricordo che il 24 marzo, questo stesso giornale uscì con una copertina in cui si cercava di fare luce proprio sulle reazioni avverse di AstraZeneca. La Germania aveva già fermato la somministrazione, qualche procura aveva aperto un’indagine. Ma in quei giorni bisognava andare di fretta, sconfiggere il virus, dunque nessuna autorità si preoccupò troppo: l’obiettivo era mettere in sicurezza il maggior numero di persone possibile, evitare che le corsie degli ospedali si riempissero di malati.

Il 3 giugno di un anno fa, al pronto soccorso di Lavagna, a due passi da Sestri Levante, si presentò proprio Camilla, che nove giorni prima si era vaccinata. La visitarono e la rimandarono a casa, nonostante le piastrine nel sangue continuassero a scendere, segno di una possibile trombocitopenia. Due giorni dopo, la giovane ritornò in ospedale, ma la situazione era già disperata. La ricoverarono al San Martino di Genova, il presidio sanitario più importante della regione, ma ormai era tardi. Il 10 giugno i medici dichiarano il decesso.

Per una macabra ironia statistica, essendo morta 16 giorni dopo il vaccino, non rientra tra i casi che l’Aifa, l’autorità che vigila sui farmaci, prende in considerazione per definire gli effetti avversi. Se muori subito, il decesso viene messo in correlazione all’iniezione: se tardi, l’agenzia ti cancella. Ma la sua fine non poteva essere cancellata nella mente e nell’animo dei suoi familiari. Non si può morire a 18 anni perché ti iniettano un farmaco i cui effetti avversi non sono ancora stati completamente valutati. Non si può dare la colpa della morte alla vittima, accusandola di non aver detto tutto sulle sue condizioni di salute.

Con questo tarlo nella testa, a un mese dalla scomparsa della ragazza, è scomparso anche il nonno. Una volta si sarebbe scritto che è morto di crepacuore, adesso i giornali si limitano a registrare il decesso addebitandolo al dolore per la perdita della nipote. Il 24 marzo scorso, poi, è morto anche il papà di Camilla: un malore improvviso, mentre era poco distante dalla casa in cui era andato di recente ad abitare per allontanarsi da quella in cui aveva vissuto con la figlia.

Insomma, tre tragedie in una, liquidate con una colonna in cronaca dalla maggior parte dei giornali. A distanza di mesi, a differenza delle frettolose ricostruzioni sulle malattie congenite di cui avrebbe sofferto Camilla, una perizia disposta dalla Procura di Genova ha accertato che la giovane non solo era sana e non prendeva altri farmaci, ma che la sua morte è riconducibile a una trombosi, proprio una delle cause avverse registrate con il vaccino.

Nel verbale del Comitato tecnico scientifico, si segnalavano le numerose controindicazioni di AstraZeneca, sconsigliandone l’utilizzo per le persone di età inferiore ai 60 anni. Camilla ne aveva 18, ma a nessuno è venuto in mente che quel vaccino poteva non essere adatto a lei, così come nessuno probabilmente pagherà per la sua morte, se non i «pesci piccoli» e forse neppure quelli. Le multinazionali hanno preteso uno scudo penale e chi esige giustizia per Camilla, al massimo dovrà accontentarsi di un risarcimento.

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