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Bellini, la pittura tra Dio e la natura

Bellini, la pittura tra Dio e la natura

A Parigi, un’esposizione ripercorre l’opera dell’artista veneziano vissuto tra Quattrocento e Cinquecento. Ed esalta una sua fondamentale, affascinante caratteristica: la ricerca della sacralità dell’umano.


Destano invidia e ammirazione la misura e l’equilibrio con cui il più fascinoso museo di Parigi, il Jacquemart-André, ha realizzato una mostra difficile come quella di Giovanni Bellini, il più semplice e il più difficile dei pittori veneziani. Dalla prima sua mostra a Venezia, naturalmente, in palazzo Ducale, nel 1949, curata da Rodolfo Pallucchini, poche sono state, se pensiamo ad artisti tante volte esibiti come Tiziano e Lorenzo Lotto, le occasioni per riflettere su di lui, «uno dei grandi poeti d’Italia», «uomo di meditazioni instancabili», come ce lo propone Roberto Longhi. Ora a Parigi, il pittore che non ha temuto le grandi, monumentali dimensioni della pale d’altare, concepite con Piero della Francesca e Antonello, concorrendo a definire uno stile italiano, quando l’Italia non c’era, è proposto con opere di piccolo formato, per un concerto, non di sinfonie, ma di musica da camera, con variazioni evidenti, che non mutano la sua indole filosofica, il suo pensiero, nel dialogo di crescita con Antonio Vivarini, con il padre Jacopo, con il fratello Gentile con Michele Giambono, con Mantegna, con Marco Zoppo, con Lazzaro Bastiani, con Carlo Crivelli. Li accosta, li sfiora, li supera, perché le sua pittura esprime un pensiero cristiano con la convinzione interiore di un filosofo, anticipando l’intuizione di Spinoza: «Deus sive Natura».

Nessuno come lui sente ed esprime la sacralità del paesaggio, anche quando appare in lontananza tra la Vergine e i santi che ci pone davanti in innumerevoli composizioni. Quando guardiamo un paesaggio di Bellini, dipinto con una semplicità disarmante, vediamo Dio. È inevitabile riconoscere come Bellini sia un pittore così profondo che dipinge la natura coltivata della campagna veneta e raramente l’acqua, e più di lago che di mare, come vediamo nel Battesimo di Cristo nella chiesa di Santa Corona a Vicenza, dove si celebra il rito nella realtà misteriosa e avvolgente del lago di Fimon, nella chiostra del Monte Berico luogo più di ogni altro denso di spiritualità, nella profondità di un tempo immemorabile. E quando l’acqua appare nella mirabile Sacra conversazione Giovannelli, delle Gallerie dell’Accademia, fra i protagonisti si vede una solida e fortificata città sull’acqua non è la laguna di Venezia, non è una città di mare.

Il veneziano Bellini predilige essere veneto e, quando pensa alla natura, pensa alla campagna veneta. Ma la pensa, non la vede, perché quella campagna è dentro di lui come un’essenza. Mettere un dipinto di Bellini a fianco di un dipinto di Perugino ci consente non soltanto di distinguere la terra umbra dalla terra veneta nei diversi paesaggi, con diversa vegetazione e coltivazioni, ma di intendere che la natura di Bellini non rispecchia una identità morfologica ma una condizione spirituale. Soltanto Piero della Francesca, non Perugino, ha sentito il mistero della natura al di là della identità dei luoghi, che pure restano riconoscibili. Ma da questa identità, il Bellini, come Piero, in un rapporto più intenso di quello fra Bellini e il cognato archeologo Andrea Mantegna, deriva un’emozione così profonda che lo fa sentire e ci fa sentire al centro del mondo, nel cuore del mondo.

Bellini si muove nel nome dell’umano e della sacralità dell’umano, che lo rendono più intenso e profondo dell’unico artista che ha cercato(ed espresso) un’analoga simbiosi tra l’umano e il divino: Raffaello. E anche nel confronto con lui, così grande, Bellini non cede, non arretra. Vive un’esistenza così lunga fino a una vecchiaia che si spinge quasi fino alla fine di quella di Raffaello che era nato più di cinquant’anni dopo di lui. Bellini muore quasi novantenne, onusto di esperienze, nel 1516; Raffaello muore a 37 anni nel 1520. Per un tratto di vita le loro intense vicende creative si sovrappongono. La naturalezza di Raffaello, quella che stupì Renoir davanti alla Madonna della seggiola, una delle creazioni più alte del maestro urbinate, è la cifra costante di Bellini, in innumerevoli variazioni del tema della Vergine con il Bambino. Ce lo dicono, dopo la prima fase testimoniata nella importante e arcaica Madonna con il bambino di collezione privata, in mostra a Parigi, l’assorta Madonna di Berlino e quella del Museo di Castelvecchio a Verona, una contro un paesaggio fluviale l’altra come sollevata in cielo.

La rappresentazione psicologica si fa umanissima nella Madonna con il bambino con il dito in bocca contro una tenda rossa, sempre a Berlino, o nelle intense Madonne contro il fondo oro, senza residui bizantini, di Ajaccio e ancora di Berlino. Se mai fosse stato necessario sentire a quali vertigini giunge Bellini è utile a intenderlo, con la commozione della vita, l’accostamento alla icona veneto-cretese, proveniente dal Petit Palais. Come Bellini arrivi a questa purificazione della forma, che ritroviamo anche in soggetti drammatici come le Crocefissioni, ce lo dicono le parole penetranti di Roberto Longhi: Bellini è «uomo di meditazioni instancabili, mai pago di evocare l’antico, d’intendere il nuovo e di provarli, egli fu tutto quel che si dice: prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin giorgionesco; eppure sempre lui, caldo sangue, alito accorato, accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia, e il manto della natura». La coincidenza tra umano e divino appare anche nei suoi Cristo in pietà: a Parigi si vede quello sublime di Berlino con i due angeli adolescenti, impermeabili, nella loro grazia, al dolore. Bellini ha una tensione costante con variazioni continue, nella stabilità di un’anima che non ha solo fede ma ragione in Dio, che è un Dio certo, dentro di lui.

Così è per quattro decenni, fino alla Pala di San Zaccaria, di cui è sintesi la purissima Madonna con il bambino della Galleria Borghese, a fianco di un paesaggio che sarà caro a Giorgio Morandi. Una imprevedibile inquietudine sembra sfiorarlo ai suoi tardissimi anni, quando trasforma la Pala d’altare, da lui stesso concepita in concerto con Antonello, in una composizione potentemente statuaria, con i Santi Girolamo, Cristoforo, Ludovico da Tolosa, per la chiesa di San Giovanni Crisostomo a Venezia. Emozioni sempre nuove attraversano la mente di Bellini, vecchio senza tempo. Ed ecco allora, più giorgionesca di Giorgione ed elegante come un busto di Tullio Lombardo, la estrema giovane Donna allo specchio del Kunsthistorisches Museum di Vienna, del suo ultimo anno di vita: un inno alla bellezza femminile, contemplata e desiderabile, senza idealismi, tra l’interno di una stanza e un paesaggio collinare contro cui si impone all’attenzione un vaso di vetro con essenze.

L’ultimo atto di Bellini è una nuova interpretazione della Venere di Botticelli, calata nella vita reale, nella quotidianità di una giornata tranquilla, attraversata da una emozione nuova. E se qui è l’allievo Giorgione, perduto già cinque anni prima, a ispirare un grande vecchio curioso dei giovani e infinitamente giovane, è Tiziano a guidare l’ispirazione del suo ultimo capolavoro: L’ebbrezza di Noè del museo di Besançon, con il delicatissimo e impossibile nudo di vecchio fra i giovani figli agiti da istinti brutali, in una nuova percezione del peccato, e la fragilità della tazza di vino in bilico in primo piano. Un’opera potente, di un uomo turbato nella imminenza della morte. Il sonno di Noè è l’addio alla vita di Bellini. La mostra ci riserva una sorpresa: un piccolo «rilievo» di Donatello, proveniente dalla Chiesa di San Gaetano di Padova, concepito in quel fertile decennio di dialogo con gli artisti veneziani. Cristo è un uomo straziato irrimediabilmente, con il dolore dei due angeli che lo assistono, mentre le due donne in basso, immerse nel sarcofago, sembrano calarsi per riemergere, come in una visione di Bill Viola dove le figure si muovono nell’acqua. È il saluto di un grande fiorentino, drammatico e tragico, al serenissimo e pacificato Bellini. Donatello è il maestro che era stato all’inizio del suo percorso di formazione a Padova con Andrea Mantegna. L’uno dionisiaco, l’altro apollineo. Viola, sensibilissimo, interpreta Donatello alla luce di Bellini, compone le due esperienze estreme. E , con la sua lezione, mostra che tutta l’arte è contemporanea. Bellini lo racconta, oggi, a Parigi, fra i capolavori italiani, veneti, umbri, toscani, ferraresi del Musée Jacquemart-André.

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