Un decennio (e oltre) di eversione, pallottole, bombe, stragi che hanno segnato il nostro Paese. E un grande giornalista, Giampaolo Pansa, che quelle storie le ha raccontate con stile inconfondibile su quotidiani e settimanali. Parole che oggi tornano in un libro, Piombo e sangue. Per non dimenticare.
Un paio d’anni (1968 e 1969) che ne valgono una dozzina e un decennio (1970-1980) che, con buon anticipo sul calendario, abbassa il sipario sul Novecento per chiudere un’epoca e avviarne un’altra. La prosa nervosa – e tuttavia accattivante – di un grande giornalista come Giampaolo Pansa incornicia le cronache di quei tempi che, riproposte oggi, assumono la fisionomia della storia. La raccolta delle sue cronache comincia con la bomba di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969). Quell’attentato segna un «prima» e un «dopo» – nemmeno parenti fra loro – con una separatezza definitiva, difficile da individuare per altri periodi. La potenza del tritolo devasta l’atrio della Banca nazionale dell’Agricoltura e cancella la vita di 17 persone. «Figure che» registra Pansa «(terribile dirlo) non hanno più nulla di umano. Sono corpi sventrati, braccia e gambe spalancate: o meglio le avevano perché adesso, al posto degli arti, si vedono soltanto dei moncherini».
Nemmeno lui sa attribuire all’attentato un significato compiuto. Non al momento, perlomeno. Cerca di mettere insieme brandelli di testimonianze, capaci di dare un senso a ciò che – apparentemente – senso non ha. Pansa «cammina fra macchie di sangue» ma il mestiere è più forte del disgusto. Si appunta nomi e dichiarazioni di tutti quelli che trova: Michele Carlotto, Egidio Pinziroli, Atanasio Morzillo, Pietro Benzi. Nessuno si ricorda un episodio analogo. Anzi no: forse un paragone è possibile con i bombardamenti aerei del 1943. E don Corrado Fioravanti «di fronte a cose agghiaccianti» non ha parole. Gli inquirenti credono d’individuare gli autori dell’attentato nei militanti della cellula anarchica del Ponte della Ghisolfa. La prova verrebbe dalla segnalazione del taxista Cornelio Rolandi che, alla banca, in auto, ha accompagnato uno con una borsa abbastanza pesante. Uno che poteva essere Pietro Valpreda.
Ne portano in questura a decine. L’anarchico Giuseppe Pinelli «entra vivo ed esce morto». In una fase dell’interrogatorio (che, ancora, non si avvale di chiarimenti definitivi) precipita dalla finestra aperta e si schianta nel cortile interno del palazzo. È goffo il tentativo di giustificare l’accaduto come se si trattasse di un suicidio. La sinistra ribalta le accuse e prende di mira il commissario Luigi Calabresi, cucendogli addosso l’abito dello sbirro torturatore, nei confronti del quale «deve» intervenire la giustizia proletaria. Non che Pansa non abbia le sue idee ma le tiene per sé e sui giornali dove scrive ospita le voci di tutti. Intanto il testimone-chiave con la faccia del boxeur suonato. «Ho iniziato a pensare a quell’uomo che avevo accompagnato vicino alla banca e mi sono messo a macchinare: “Stà tent ca l’è cul là”. Non ho dormito due notti». Interviste che non perdono di vista il lato umano della gente. «Mia moglie Teresa mi diceva di lasciare perdere perché forse non era lui. Ero come un leone in gabbia. Quasi mi strappavo i capelli».
Licia Pinelli, rimasta vedova con troppe domande senza risposta, gli racconta del marito: «estroverso, generoso, entusiasta». Anche ingenuo? «Forse». Ma poteva nasconderle qualcosa? «Lo guardavo negli occhi e capivo tutto». Torna con la memoria a quando si erano conosciuti alla scuola di Porta Venezia dove si studiava esperanto: una lingua che sembrava costruita apposta per promuovere una fratellanza universale. Lei campa lavorando in una copisteria dove trascrive a macchina le tesi dei laureandi. Problemi economici? «Non sono ancora morta». Pansa ritiene doveroso sottolineare «la dolcezza asciutta» di quella donna ma dà voce anche al poliziotto che tutti indicano come un seviziatore. «Da due anni sono sotto la tempesta e se non fosse per la fede che non mi manca non so cosa avrei fatto». Nota la giacca beige, il pullover con il collo alto, la parlata rapida e le mani spesso accostate al viso. Certo, un’immagine «lontana dal mestierante di questura» come comprensibile dalla passione per cinema e teatro e da «qualche ambizione letteraria». Paura? «Paura no. Ho la coscienza tranquilla. Potrei farmi trasferire ma non voglio muovermi da Milano». Impossibile chiudere il «pezzo» senza annotare «lo sguardo fisso, sorridente, in una stanza dove il silenzio è gravido d’imbarazzo». Calabresi finisce all’obitorio con tre pallottole in corpo: «Vittima pure lui di una storia troppo grande», scrive il nostro.
Le indagini sulla bomba di piazza Fontana avevano guardato a sinistra e occorreva voltarsi a destra. Al contrario, per trovare gli assassini di Calabresi cercano a destra quando servirebbe orientarsi a sinistra. Incriminano il bombarolo «nero» Gianni Nardi per scoprire – ma a distanza di tempo – che la mano era quella di Lotta Continua… Intanto il mondo della politica è statico e friabile con governi e maggioranze parlamentari – ognuno sempre simile ai precedenti ma sempre pericolanti – impegnati (a parole) nella definizione di riforme indispensabili e, tuttavia (nei fatti) vittima di quotidiani bisticci di meschina bottega. La Democrazia Cristiana frena perché sente l’esigenza di non impaurire un elettorato moderato. I socialisti, al contrario, sentono l’esigenza di dimostrare ai concorrenti comunisti e ai massimalisti rimasti nel partito che le riforme di cui si parla non sono solo chiacchiere.
Quanto alla società, va avanti per conto suo. Venticinque milioni di cittadini cambiano residenza e si muovono fra regioni e da Sud a Nord. Si spostano per lavoro, cercano nuove opportunità e mandano i figli all’università che perde quella connotazione da élite per diventare più popolare. Un’effervescenza che può diventare crudele perché le ambizioni, una volta deluse, si trasformano in rabbia. Il desiderio di rivincita – come uno smottamento che s’ingrossa prima di farsi valanga – diventa rivolta e la rivolta prende la forma della ribellione. Alla «Statale», a Milano, scoppia la contestazione. Nelle fabbriche, il mondo operaio è in ebollizione perché chiede e, in qualche caso, pretende riconoscimenti che la controparte della Confindustria fatica – addirittura – a comprendere. Studenti che «credono all’impossibile» e lavoratori che vogliono evadere «dalla prigione della catena di montaggio». Sono tutti lì gli ingredienti, capaci di trasformare rivendicazioni legittime in guerriglia urbana, punteggiata da agguati quasi quotidiani per punire i «nemici del popolo».
A voler schematizzare, tre sono i focolai originari del terrorismo «rosso»: la facoltà di Sociologia dell’Università di Trento dove la rivolta è animata da Renato Curcio; la fabbrica Sit-Siemens di Milano, travagliata da una conflittualità permanente, destinata a sfociare nell’esasperazione della lotta sindacale; e la dissidenza dei «giovani» comunisti di Reggio Emilia, contestatori dell’apparatchik del Pci «colpevole» di aver rinunciato alla rivoluzione per vestire l’abito della borghesia. L’inizio della lotta armata avviene in sordina con le azioni dei «tupamaros» di Genova ma ci vuole poco perché «alcune avanguardie conquistino il terreno dell’azione offensiva e violenta». Del resto, teorizzano – «non esiste lotta senza capacità militare». Ed è una stagione di sangue. A Genova ammazzano il giudice Francesco Coco (8 giugno 1976). A Sesto San Giovanni, in una casa anonima – «cinque gradini rivestiti di mattonelle grigie» – Walter Alasia uccide due poliziotti ed è ucciso (14 dicembre 1976). Sparano al vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno che muore dopo giorni di agonia (29 novembre 1977): è il primo articolo di Pansa per Repubblica, dove registra il dolore «composto» dei colleghi e i «sogghigni» degli operai della Fiat disposti ad accettare «dieci, cento, mille Casalegno».
Poi i proiettili che tolgono la vita al professor Vittorio Bachelet (12 febbraio 1980), quelli che stroncano il giornalista Walter Tobagi (28 maggio 1980) e il calvario dell’onorevole Aldo Moro che (9 maggio 1978) finisce – cadavere – nel portabagagli della Renault rossa, in via Caetani, a Roma. L’odio va oltre i dieci anni «classici» del terrore e accompagna alla fine del millennio. Massimo D’Antona è ucciso da un commando «rosso» il 20 maggio 1999 e Marco Biagi – a dispetto del suo desiderio di vivere in un Paese «normale» dove è piacevole pedalare in bicicletta – viene freddato davanti al portone di casa sua, il 19 marzo 2002. Pansa osserva, si sforza di capire, indaga nelle pieghe della cronaca, non può evitare di commuoversi per le vittime e d’indignarsi per i carnefici. Quelli che sparano e quelli che, in un modo o nell’altro, ne autorizzano le azioni. «Gli incendiari di ogni parte politica riflettano prima di urlare. Se questi sono i risultati delle loro arringhe, s’impongano la regola del silenzio».
