Il grande giornalista, firma indimenticabile di Panorama con il suo «Bestiario», nei ricordi della compagna che ne ha condiviso professione, libri, incontri. Un legame, il loro, fatto di amore e complicità. Nel racconto quotidiano della vita a due da cui pubblichiamo un estratto, Adele Grisendi prova a lenire il dolore della perdita.
Dal settembre 2008 Giampaolo ha pubblicato due libri ogni anno e su diversi argomenti. Aveva però un chiodo fisso, quello che si riassume in una frase sola: «Io insistisco». Si riferiva al costante ritorno alle verità presentate al grande pubblico con Il sangue dei vinti e Sconosciuto 1945 e con i successivi. I suoi detrattori lo definiscono «il ciclo dei vinti».
Mi diceva spesso: «Ho scritto tanto sulla Resistenza e non rinnego niente. Non ho mai cambiato idea: è la mia patria morale. Il mio eroe è il partigiano che libera la mia città. Ma c’erano anche gli altri e non si può essere onesti nel raccontare la guerra tra gli italiani dal 1943 al 1945, trascinata dalle vendette fino al 1946 e anche oltre, come se a combatterla fosse stata una parte sola. Come se a liberarci siano stati soltanto i partigiani e, per giunta, i comunisti. La verità storica dice che erano una minoranza. A liberarci sono stati gli alleati, i soldati americani e inglesi e di altre nazionalità».
«Mi dichiaro recidivo, infatti il mio Esercito di Salò del 1970 è scritto su fonti fasciste. Con Il sangue dei vinti del 2003, ho tirato i sassi contro la storia incompleta. Da anziano sono tornato a fare lo “spaccavetri”, come da giovane. Fu Ferruccio Parri a chiamarmi così dopo avere ascoltato il mio intervento al convegno sulla storiografia a Genova nel 1959. Contestavo il disinteresse per le fonti e richiamavo all’esigenza di parlare di entrambe le parti in lotta e non soltanto dei vincitori. È stata quella la prima volta che mi sono sentito dare del fascista dai rappresentanti della sinistra in sala, comunisti e socialisti. Anche in questo sono recidivo».
«Cara Adele, dolce ragazza mia, lo so che leggere e ascoltare gli insulti che continuano a rivolgermi ti provoca dispiacere, ma non abbiamo sbagliato strada. È questo che conta, perché abbiamo la coscienza a posto. E non badare ai giornali che accolgono i miei libri con il silenzio più assordante. E cosa vuoi che importi se Giorgio Bocca mi dà del voltagabbana! Per me, è una delle tante medaglie». «Io sento il dovere di insistere nel mio revisionismo, perché quando non ci sarò più si farà di tutto per far apparire il mio lavoro come un incidente di percorso dovuto a un giornalista che ha invaso il campo degli storici patentati in cerca di sensazionalismo e di facile guadagno. Per questo, finché sarò in grado e sino a quando ci sarà un editore che mi pubblicherà non smetterò di rompere le scatole a lorsignori. La verità è come l’acqua del fiume, quando rompe gli argini non c’è difesa. Dunque non ci saranno angoli bui nei quali ricacciarla».
(…) C’è nel nostro Paese una violenza sempre pronta a esplodere, come se nella sua pancia esistesse uno jihadismo tutto nostro che lacera la convivenza e impedisce di guardarsi in faccia tra parti avverse. Tanto per essere chiara, questo sentimento non sta soltanto da una parte, il fossato dell’incomunicabilità è profondo e ciascuno ha scavato sulla propria riva accusando gli altri e non guardandosi mai allo specchio. Torno all’Italiaccia senza pace e all’Italia non c’è più perché figli di questa realtà. A volte ho pensato che il pessimismo avesse preso la mano a Giampa, ma ho dovuto ricredermi. Per esempio, mentre si divertiva a preparare il libro che si è poi chiamato L’Italia si è rotta, io ero abbastanza scettica sul gioco dell’assurdo che creava. Però, dopo averci lavorato a fondo per pubblicarlo, pure se incompleto e grazie allo strepitoso Pietrangelo Buttafuoco delle pagine finali, devo riconoscere che è una specie di «Satyricon» pansiano non molto distante dalla realtà. Grottesco in alcune parti, ma specchio del grottesco nel quale viviamo immersi noi italiani.
(…) Sono arrivata alla fine di questo viaggio che ha visto Giampaolo e me camminare insieme dal lontano 1989 ed è giunto all’ultima stazione il 12 gennaio 2020, dopo trent’anni e un mese di vita senza che ci siamo mai persi di vista. Un viaggio concluso da centoquattro giorni di accanito desiderio di poter riprendere la strada tenendoci per mano. Purtroppo così non è stato. Con questo lungo racconto rispetto il desiderio di Giampa. «Quando me ne sarò andato, devi promettermi che scriverai la nostra storia» mi ha raccomandato non so quante volte. Era sicuro che mi avrebbe lasciato sola e ne parlava come di un fatto naturale.
Per sé sperava di fare presto, mentre la sua preoccupazione più grande era per me. In un’intervista televisiva con un’amica della Rai, fu struggente: «Ogni tanto mi domando come vivrà lei e il pensiero mi angoscia». Riascoltarlo mi mette al tappeto. Ci siamo dati l’uno all’altra con fiducia assoluta. Ci siamo protetti sempre. Ci siamo amati con gioia, con ottimismo e allegria, godendo ogni attimo che il Padreterno ci regalava. Ci siamo divertiti come due ragazzi senza età.
Siamo stati insieme trent’anni e un mese e insieme siamo diventati grandi, nel senso che siamo cresciuti, migliorati. Ci siamo donati quel che avevamo senza negarci nulla. Siamo stati uniti nel tanto bene e nei momenti complicati, come una qualsiasi coppia che si ama e si rispetta. Raccontare cos’è stata la nostra vita è un modo perché Giampaolo continui a vivere nelle pagine di un libro anche se l’autore non è lui. Però ne è protagonista in ogni riga. Nei dieci mesi che sono serviti, scrivere mi ha permesso di trovare momenti di evasione dal dolore per la sua assenza e di ritrovare la gioia, l’allegria e la complicità del nostro tempo.

È stata l’occasione per recuperare ricordi e situazioni finiti in fondo alla memoria, ma non dimenticati. Un modo per ripercorrere i nostri anni e riaffermare la forza e l’integrità di Giampa come essere umano e giornalista e scrittore. E per fare il punto anche su me stessa, su chi ero e chi sono diventata. Mi auguro che dove si trova sia contento del risultato, ma lui sa che ho fatto del mio meglio.
Giampa non mi ha mai nascosto il desiderio di scrivere la nostra avventura umana a quattro mani. Aveva cominciato a lavorarci e nel suo computer ho trovato il file Noi due, per caso, nel quale si era divertito a fare il suo consueto schema. Nella sua immaginazione, sarebbe stato differente da questo. Saremmo stati ancora insieme e ognuno avrebbe raccontato le proprie emozioni e il proprio percorso prima individuale e poi comune. Nel suo progetto procedevamo su due strade parallele che, a un certo punto, si univano fondendosi in una soltanto.
(…) Per tutti, il ritorno al passato è un modo per non pensare agli anni che crescono e al tempo a disposizione che si riduce. Per dimenticare che verrà il momento in cui resteremo vivi solo nella memoria di chi ci ha amato e conosciuto. Giampaolo ha sempre parlato della sua morte come un fatto inevitabile, era aggrappato alla vita, ma con naturalezza metteva in conto di non esserci più. Il suo modo per esorcizzarla era scrivere. Scrivere per lasciare più tracce di sé e, con i suoi libri, continuare a esserci anche dopo che il suo tempo su questa terra si fosse concluso.
