Lo scontro in corso a Piazza Affari rischia invece di diventare la prima grande operazione di riassetto della finanza italiana, con ciò che ne consegue per banche e imprese. Ma anche per tutti noi.
Li hanno definiti due arzilli vecchietti. E in effetti arzilli lo sono e pure vecchietti. Il primo ha 86 anni e il secondo 78. Ma oltre ad avere una certa età, Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone hanno anche molti miliardi, al punto da svettare in cima alla classifica degli uomini più ricchi d’Italia. Di sicuro sono tra i più «liquidi» e, nonostante gli anni, tra i più vivaci. I due da qualche tempo sono al centro di una contesa che a un lettore meno attento potrà apparire di alta finanza, senza nessuna reale ricaduta sulla vita di tutti i giorni, specialmente di quella di molti italiani.
In realtà il conflitto riguarda da vicino gli assetti di alcune note istituzioni di questo Paese, tra cui le Generali, la compagnia d’assicurazione più importante d’Italia (con oltre 70 miliardi di raccolta premi, 72.000 dipendenti e 66 milioni di clienti nel mondo è seconda in Europa), e Mediobanca, ovvero quello che un tempo era considerato il salotto buono delle imprese italiane, centro di potere e di affari, vero snodo del sistema capitalistico.
Vi domandate che cosa vogliono i due arzilli vecchietti e che cosa c’entrano la quieta compagnia triestina e la merchant bank di piazzetta Cuccia? Semplice. I due pensano a cambiare la governance, cioè le regole di gestione, delle due società. Al momento, sia Generali che Mediobanca possono essere considerate due public company, ovvero due istituzioni finanziarie che non hanno un azionista di riferimento. I soci sono numerosi e in gran parte si tratta di grandi fondi d’investimento internazionali. Risultato, a comandare sono i manager.
Sul colosso delle polizze veglia Philippe Donnet, un amministratore delegato di origine francese con un lungo passato in Axa, compagnia transalpina diretta concorrente di Generali. In Mediobanca invece da anni c’è Alberto Nagel, un dirigente che è nato e cresciuto dentro la banca, prima con Enrico Cuccia, l’uomo che la fondò, e poi con Vincenzo Maranghi. Da sempre, a decidere lì dentro sono stati i manager e non gli azionisti, anche perché spesso questi ultimi di soldi ne volevano mettere pochini e per di più erano divisi tra loro, intenzionati più a risolvere i guai delle proprie imprese che occuparsi della banca.
Ma Del Vecchio e Caltagirone invece, di milioni ne hanno a centinaia e li hanno investiti proprio dentro Mediobanca e, soprattutto, dentro Generali. Nessuno dei due è di quelli che un tempo avremmo definito raider, ovvero speculatori, uomini pronti ad approfittare di un equilibrio societario instabile per scalare un’azienda, farla a pezzi e rivendere le attività lucrando la differenza. No, entrambi sono investitori stabili, che dopo aver accumulato una fortuna con le loro imprese (Luxottica il colosso costituito dal niente da Del Vecchio; una conglomerata con interessi nelle grandi opere, nell’immobiliare, nell’editoria e nella finanza quello di Caltagirone), hanno deciso di spendere i propri quattrini in azioni che un tempo avremmo definito da cassettista, ovvero da tenere a lungo, perché danno buoni dividenti.
Fin qui tutto chiaro e anche tutto perfettamente comprensibile. Si dà il caso però che dopo molto tempo trascorso a tenere nel cassetto i loro titoli di Generali e anche di Mediobanca, sia Del Vecchio che Caltagirone abbiano cominciato a esprimere dubbi sulla gestione della compagnia del Leone. Intendiamoci, Donnet è bravo, le azioni non hanno perso valore, gli utili ci sono così come i dividendi. Ma dopo sei anni, Del Vecchio e Caltagirone vorrebbero cambiare qualche cosa nella guida della compagnia, ritenendo, a torto e ragione, che si possa fare meglio. E soprattutto che si possa evitare che Generali diventi una specie di succursale di Axa, con le porte girevoli che consentono ad alcuni alti dirigenti di andare e venire da Parigi a Trieste.
Giusto o sbagliato, sta di fatto che a quelli che ormai sono due dei più importanti azionisti della compagnia finora è stato risposto picche. Da tutti gli altri soci? No, da uno in particolare, ossia Mediobanca, che pur essendo più piccola, controlla di fatto il Leone con un pacchetto inferiore al 13%, facendo e disfacendo i consigli di amministrazione. Del Vecchio e Caltagirone non hanno digerito il tentativo di comprare Banca Generali, promettente istituto di credito cresciuto in pochi anni sotto la guida di un giovane gruppo di manager, da parte di Mediobanca, ritenendo che vi fosse un conflitto d’interesse. E allo stesso tempo non sono piaciute alcune acquisizioni di rami d’azienda dismessi da Axa, mentre altre compagnie ritenute più interessanti, sono sfuggite di mano.
Insomma, i soci privati pensano che sia ora di cambiare e quindi si sono messi insieme, raccogliendo un pacchetto di azioni che è superiore a quanto detenuto da Mediobanca. L’istituto di Nagel però non è stato a guardare e, con una mossa a sorpresa, ha affittato i titoli delle Generali di proprietà di Bnp Paribas. In pratica, per stoppare la mossa contro lo strapotere francese del patron di Luxottica e del suo alleato Caltagirone, Mediobanca si è rivolta agli stessi francesi, prendendo a prestito per qualche mese, giusto il tempo di stoppare le manovre anti Donnet, le azioni che servono.
La conseguenza, come spiega bene Francesco Bonazzi nel servizio che segue, è che la guerra si è estesa ora a piazzetta Cuccia, dove Del Vecchio ha cominciato a comprare azioni Mediobanca fino a diventare il primo azionista e ha costretto l’istituto guidato da Nagel a modificare lo statuto, per aprire ai consiglieri delle minoranze. È il primo risultato di uno scontro che a simili livelli in Piazza Affari non si vedeva da anni, ma risulta evidente che siamo solo all’inizio e che prima o poi, intorno alle due istituzioni finanziarie tra le più importanti del Paese, vedremo i fuochi d’artificio. E per quanto la vicenda sia stata derubricata a resa dei conti personale (il patron di Luxottica si vuole vendicare perché Mediobanca ha bocciato il suo progetto sull’istituto oncologico fondato da Umberto Veronesi, è stato raccontato in giro), rischia invece di diventare la prima grande operazione di riassetto della finanza italiana, con ciò che ne consegue per banche e imprese. Ma anche per gli italiani.