Questo artista calabrese ha la capacità di rappresentare una natura che restituisce slancio vitale. E nei suoi quadri si trovano alcune risposte che tutti cerchiamo.
Non si fa fatica a riscontrare una costante nella pittura che Franco Azzinari, calabrese nativo di San Demetrio Corone, ma con vocazione più da giramondo che da pittore stanziale, persegue da oltre un quarantennio. L’ispirazione artistica gli viene da un soggiorno giovanile a Parigi, di necessità più che di formazione, dove scopre le opere di Monet, Gauguin e Van Gogh, decidendo, allora pittore di strada, di proseguire in modo personale il loro percorso. Altri viaggi incideranno nell’immaginazione nella sensibilità e nella cultura di Azzinari, e soprattutto a Cuba, dove si immerge per la prima volta nel 1992. Eppure, a vedere i dipinti realizzati in questo periodo, si potrebbe pensare che non si sia mai spostato da una stessa terra, tanto è coerente come la rappresenta.
Già, ma quale terra? È campagna assolata, su questo non ci sono dubbi. Campagna della Calabria natìa, luogo degli affetti come nessun altro, per un istinto profondo. Di campagna calabra ce n’è tanta nella sua pittura, ma ci si accorge subito che da sola non basterebbe. Si sentono altri luoghi del Mediterraneo: la Sicilia, il Salento, la Sardegna, le Baleari, la Grecia, la Provenza di Gauguin e Van Gogh. E allora ci si rende conto che la terra di Azzinari appartiene più all’anima e alle implicazioni del cuore che alla geografia, mostrandosi non come uno specifico («questo e solo questo») anche quando il riferimento a una realtà di natura è diretto, piuttosto un mondo universale in cui vengono riversate peculiarità che sono comuni a diverse manifestazioni di una stessa matrice di fondo, la «mediterraneità», se così la vogliamo chiamare. Una pittura che, in tutta evidenza, si richiama al Post-impressionismo interpretato con suggestioni di primitivismo popolaresco, anche se mai arrivando alle soglie del mondo naïf, dal quale Azzinari è immune per capacità di controllo dell’impulso incolto r una lenta e puntigliosa meditazione.
Ce ne accorgiamo nei dipinti anni Ottanta, immersi in uno spirito bucolico alla ricerca dell’armonia fra uomini, natura e dei dell’«età dell’oro», dove è possibile riscontrare più Guttuso che Ligabue (nell’Agave nella diga di Tirsia, per esempio, del 1984, con la linea incisiva che detta le regole della composizione lasciando al colore il compito di animarla), come ne L’ulivo, la pianta cara alla dea Athena del 1982. Sono caratteri precursori della produzione successiva dell’artista: il punto di vista si abbassa, il piano di fondo con ciò che contiene (la frutta) copre gran parte dell’inquadratura, il cielo viene relegato a un ruolo secondario, occupando il margine superiore del dipinto. L’erba è la protagonista del quadro, definita pazientemente per singoli filamenti che si intrecciano a vicenda come nell’ordito di un tessuto; se non fosse per la frutta che accoglie nel suo morbido grembo, coprirebbe tutto come un mare verde, mobile non meno dell’acqua, a cui solo l’orizzonte pone un limite.
La svolta, nella presa di coscienza espressiva di Azzinari, arriva di conseguenza: la pittura «di vento». Nel tentativo di concentrare su qualcosa di preciso una riflessione sulla natura che altrimenti rischierebbe di essere troppo generica e dispersiva, Azzinari la focalizza nella rappresentazione pittorica di un elemento teoricamente irrapresentabile quale il vento, privo di corporeità visibile. E com’è il vento di Azzinari? Non è pittoresco, almeno nel modo in cui lo intendevano i paesaggisti, né romantico se non nell’inclinazione più segreta dell’animo. Consideriamo il modello di massima attraverso il quale le opere «di vento» di Azzinari si offrono ai nostri occhi: sul davanti spighe dorate o altra vegetazione a stelo fine e flessibile, talvolta tempestata di fiori sparsi, a occupare tutto lo spazio visibile che viene ribaltato in avanti fino a fare perdere qualunque senso della profondità, salvo un lembo di cielo ancora superstite sul lato superiore del quadro.
Le distese di piante oscillanti per via del vento, bloccate in un attimo che non ferma però il concetto del moto permanente, nei suoi quadri riescono a sviluppare una fisicità ambientale tutta sensoriale, facendosi spazio avvolgente che copre tutto il campo visivo di chi guarda inducendolo a una reazione di carattere emotivo, di notevole intensità. Non vuole più, Azzinari, che nei suoi campi si contempli, vuole che ci si immerga come in un’esperienza di vitalistico trasporto. Insomma, il vento di Azzinari, riprendendo Montale, esiste non per se stesso, ma perché sia goduto. Lungi dall’essere una minaccia, è amico propizio che tutto smuovendo tutto vitalizza.
Sessanta anni fa, quando ancora non immaginava di ricevere un premio Nobel per la letteratura, Bob Dylan presentava la sua canzone più nota, Blowin’ in the Wind, presto adottata come inno internazionale da tutta una nuova generazione, che non si riconosceva più negli esempi dei padri. Alle domande capitali sul senso della vita e delle cose («quante strade deve percorrere un uomo prima di essere ritenuto tale? E quanti mari deve solcare una colomba bianca prima di riposarsi sulla sabbia»), il pacifista Dylan replicava sempre con lo stesso laconico refrain: «The answer, my friend, is blowin’ in the wind», forse a evocare l’Otello shakesperiano quando afferma, alla vista del fatale fazzoletto, che tutto il suo amore per Desdemona era svanito in un soffio al cielo («blow to heaven»). Non credo che nella sua canzone, e sono sicuro che anche Azzinari la pensi come me, Dylan abbia impiegato solo un modo di dire con cui sottintendere metaforicamente l’impossibilità di certe risposte.
Ecco, se c’è un messaggio che più di altri coglierei nella pittura più significativa di Franco Azzinari, è che dobbiamo rifarci amico il vento. Dobbiamo riconciliarci con il suo linguaggio, imparando a riascoltare quello che ha da sussurrarci. Significherebbe ristabilire un rapporto speciale, lirico, spirituale, con la terra madre e la natura tutta, come nessun ambientalismo, nessun integralismo climatico o altre ideologie incapaci di toccare le nostre corde più intime e veritiere, potrebbe mai sfiorare anche solo lontanamente. Allora sì, amico mio, che le risposte arriverebbero. E sarebbero quelle giuste.
