Provate a immaginare che cosa sarebbe accaduto se, in una delle serate del Festival di Sanremo, un cantante sul palco avesse detto che Vladimir Putin aveva buone ragioni per invadere l’Ucraina. Oppure se all’Ariston, fra un’esibizione e l’altra, un ospite avesse lanciato un appello contro l’aborto e a favore della vita. Presumo che si sarebbe levato un coro di proteste, avverse alla strumentalizzazione di una manifestazione canora.
E le vestali del politicamente corretto avrebbero chiesto un diritto di replica. I due esempi spiegano quanto sia strumentale la polemica intorno alla frase di Ghali contro il genocidio a Gaza e alla successiva replica della Rai affidata a Mara Venier.
Premesso: nei panni dei dirigenti della tv di Stato io avrei evitato di costringere la conduttrice di Domenica in a leggere un comunicato per dissociarsi dalle dichiarazioni di un cantante. Tuttavia, il caso, con le relative proteste fuori dalle sedi Rai, credo che faccia capire l’uso politico della libertà di parola e le dimensioni di quella che altro non è se non una tempesta in un bicchier d’acqua.
Ghali, cantante italo-tunisino, di fronte a milioni di italiani che certo non erano riuniti davanti alla tv per ascoltare messaggi politici ma solo canzoni, si è sentito in dovere di dire stop al genocidio, con evidente riferimento a ciò che sta accadendo a Gaza. E a chi lo ha criticato, tra questi l’ambasciatore di Israele, ha replicato in diretta tv, nel programma di Mara Venier, parlando dei bambini. E la Rai si è sentita in dovere di rettificare, prendendo le distanze.
Al che, i soliti contestatori di professione hanno deciso di organizzare manifestazioni di protesta di fronte alle sedi Rai, una delle quali, a Napoli, è finita con cinque agenti feriti e altrettanti manifestanti che hanno dovuto ricorrere alle cure in ospedale. Di qui le solite polemiche, sulla pericolosa deriva fascista nel nostro Paese, dove si vorrebbe vietare a un cantante di dire la sua.
A me pare che in Italia il diritto di manifestare le proprie idee non sia affatto in pericolo. Semmai, a essere a rischio è il buon senso. Chiunque abbia visto le immagini degli scontri davanti alla sede Rai di Napoli credo si sia reso conto che se cerchi di forzare il cordone di polizia per irrompere all’interno della redazione, la polizia non può che fare ciò per cui è stata schierata, ovvero impedirlo, anche a costo di dare qualche manganellata. Non si sta instaurando un regime, si sta solo facendo rispettare l’ordine pubblico. A maggior ragione, se i manifestanti premono sugli agenti schiacciandoli contro la cancellata.
Quanto a Ghali, i cantanti, come chiunque altro, hanno diritto di dire la loro. Ci mancherebbe. Il problema è evitare di trasformare una manifestazione canora in un talk show politico. Che senso ha dire «Stop al genocidio» se non c’è la possibilità di discutere di quello che sta accadendo a Gaza e in Israele. Certo, se l’intenzione di Ghali era far parlare di sé, il cantante ci è riuscito perfettamente, ma se invece voleva far approfondire la situazione in Palestina direi che ha fallito, perché si è parlato più di lui e della presunta censura della Rai che di bombe e terrorismo. Quanto avranno capito gli italiani di quell’accusa di genocidio? Credo niente. E se l’ambasciatore d’Israele non avesse reagito, penso che nessuno si sarebbe dato pena per la frase di Ghali. Questo vuol dire che il rapper ha fatto bene?
No, io penso che il Festival dovrebbe rimanere una manifestazione canora e non un palco in cui ognuno lancia il proprio appello. Già trovai sbagliato, lo scorso anno, la lettura del messaggio di Zelensky, così come credo che sia stato di nessuna utilità il comunicato degli agricoltori letto da Amadeus nella serata del Festival. Non è Sanremo il luogo giusto per discutere di Ucraina, di Palestina o di politiche agricole ed europee. All’Ariston va in scena la canzone italiana, nel bene e nel male. Forse più nel male che nel bene. Ma questo è un altro discorso. Insomma, stop al chiacchiericcio.
