Pier Ferdinando Casini e Danilo Toninelli rappresentano a modo loro la fine di un’epoca. Il volto del primo è l’immagine del potere che ha vissuto e superato tutto. Il volto dell’ex ministro è invece il simbolo di un potere che ha ballato per una sola stagione e ora si avvia ai titoli di coda.
Ci sono due uomini che rappresentano meglio di chiunque altro le prossime elezioni. Il primo è Pier Ferdinando Casini, il secondo risponde al nome di Danilo Toninelli. Il senatore emiliano è in politica dal 1980 e il suo ingresso in Parlamento risale a tre anni dopo. Con 34 mila voti, il 12 luglio del 1983 divenne deputato della Repubblica e da allora la sua carriera da onorevole non ha mai conosciuto interruzioni.
Nonostante la scomparsa del partito in cui mosse i primi passi, cioè la Dc, e l’addio a quello che dopo l’affondamento della Democrazia cristiana gli servì come zattera per approdare nell’alleanza di centrodestra fondata nel 1994 da Silvio Berlusconi, Casini in quasi quarant’anni è riuscito a rimanere sempre a galla. Passato dalla Balena Bianca ai resti del Partitone rosso (entrambe le definizioni sono di Giampaolo Pansa), l’ex delfino di Arnaldo Forlani è riuscito a fare il presidente della Camera per una legislatura e nelle altre ha ricoperto vari incarichi, guidando la commissione Esteri e quella d’indagine sui crac bancari. Ha mancato per un soffio l’elezione a presidente della Repubblica, bruciato sul filo di lana entrambe le volte da Sergio Mattarella, ma non avendo ancora 67 anni ha buone speranze per il futuro: in fondo gli ultimi due inquilini del Quirinale si sono insediati sul Colle in età ben più avanzata. La prima elezione di Giorgio Napolitano risale al 2006, quando già aveva superato la soglia degli 80 anni, mentre l’attuale capo dello Stato di primavere ne aveva 74. Insomma, Casini può sperare, anche perché essendo passato da destra a sinistra, strizzando l’occhio a tutti quanti, qualche possibilità di essere messo prima o poi nel mazzo dei quirinabili gli è rimasta.
L’altro uomo chiave che aiuta a comprendere le novità che verranno è Danilo Toninelli. Senatore come il più navigato ex presidente di Montecitorio, un passato da impiegato della Vittoria Assicurazioni (era addetto alla liquidazione degli incidenti), nel 2013 ha esordito alla Camera, proveniente da Soresina, centro agricolo padano. All’epoca aveva meno di quarant’anni. Una carriera politica rapida la sua perché, entrato nel Movimento 5 Stelle nel 2009, appena quattro anni più tardi si ritrovò deputato e dopo altri cinque addirittura ministro. Tralascio le gaffe collezionate quand’era responsabile delle Infrastrutture e anche la telenovela della «caducazione» (così la chiamò Giuseppe Conte) della concessione autostradale dei Benetton conclusasi con un maxi-regalo alla società della famiglia di Ponzano. Ciò che conta nel suo caso sono le intenzioni. Come promesso dal fondatore del Movimento, il «cittadino» Toninelli (così all’epoca i grillini pretendevano di essere chiamati per distinguersi dagli odiati rappresentanti della Casta) intendeva aprire il Parlamento come una scatola di tonno, per mostrare al Paese i vizi della classe politica. A distanza di quasi dieci anni dal suo debutto a Montecitorio, possiamo dire che l’apriscatole ha funzionato al contrario, in quanto le spese del Palazzo restano sostanzialmente invariate e anche i vizi, ma in compenso, a essere tranciato è il percorso dello stesso Toninelli, il quale arrivato al suo secondo mandato è costretto dalle regole interne a lasciare per tornare al vecchio mestiere. Certo, c’è sempre la speranza di qualche ripescaggio nelle retrovie della politica, con un incarico defilato in società pubbliche o in attività collaterali del partito, ma è altra cosa che stare in prima fila ed essere ogni giorno inseguiti dai giornalisti per rilasciare un sospiro da esalare al Tg delle 20.
Sì, Casini e Toninelli rappresentano a modo loro la fine di una stagione. Il volto del primo è l’immagine del potere che ha vissuto e superato tutto: la morte di Toni Bisaglia, suo primo padrino politico, la caduta di Arnaldo Forlani, il dissolvimento della Dc, la sconfitta dell’Udc, la rinascita nelle liste del Pd, fotografato in una sezione sotto le immagini di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. Il volto dell’ex ministro è invece il simbolo di un potere che ha ballato per una sola stagione e ora si avvia ai titoli di coda: di lui resteranno il balbettio di fronte al giudice che lo interrogava a proposito della nave Diciotti, il tunnel del Brennero inaugurato dalla sua fantasia, le cifre sulla fiducia a Mario Draghi che alla fine facevano 106 per cento. Con Tangentopoli si è probabilmente chiusa quella che abbiamo chiamato la Prima Repubblica, con Grillopoli e il disastro a Cinque stelle forse si chiude quella che per anni abbiamo insistito a chiamare Seconda Repubblica. Certo, è curioso che a distanza di trent’anni, a rappresentare la svolta (e un po’ anche la restaurazione) siano la testa canuta di un ex-Dc e quella riccioluta di un liquidatore di sinistri che, da settembre in poi, dovrà meditare su un incidente di percorso chiamato Parlamento. n
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