Una patente di legittimità che, nonostante elaborazioni teoriche e dimostrazioni concrete, non arriva mai. Ecco come e perché una parte politica viene bollata sistematicamente come «estrema» e tenuta ai margini del confronto democratico.
Puntualmente – quando il momento si andare alle urne si avvicina e, più in generale, nei momenti salienti della campagna elettorale permanente – assistiamo all’eterno ritorno del dibattito sulla «buona destra». Intellettuali, giornalisti, esponenti politici di ogni ordine e grado salgono in cattedra e iniziano a spiegare come dovrebbe comportarsi la destra italiana per risultare «finalmente presentabile». Segue lungo elenco di comportamenti deprecabili, mentre i più acculturati sfoderano pure i nomi degli autori che sarebbe meglio eliminare dal pantheon conservatore al fine di purgare per sempre l’area da ogni residuo fascista.
Da settimane sui principali quotidiani e nei talk show non si parla d’altro. Un sito ha mostrato pochi minuti di filmato riguardanti la cosiddetta «estrema destra», con ampio corredo di saluti romani e battutacce che nemmeno nei peggiori bar di Predappio. Nulla che non si sapesse già, ovviamente. Ma tanto è bastato per gettare nuova benzina sul fuoco. L’accusa è sempre la stessa: la destra italiana – in particolare il partito guidato da Giorgia Meloni – è ancora «fascista», dunque non merita di essere ammesso nel consesso civile. Sul tema si sono esibiti i principali opinionisti dell’area progressista.
Lilli Gruber, per esempio, ha sentenziato che Enrico Michetti, candidato sindaco a Roma per il centrodestra, poiché scelto da Fratelli d’Italia proviene da un ambiente «neofascista». Altri si sono sentiti liberi di usare toni molto più pesanti, tirando in mezzo un’altra candidata, Rachele Mussolini, colpevole d’avere un cognome imponente. Quanto a Carlo Fidanza, europarlamentare tirato in ballo nel video sulla (presunta e forse inesistente) «lobby nera» milanese, ha dovuto subire una tempesta di fango.
Alla destra italiana viene richiesto un esame del sangue, un’ulteriore prova del Dna che, se superata, dovrebbe consentirle l’ingresso in società. A prima vista, potrebbe pure trattarsi di una richiesta legittima. Il fatto, però, è che il giochino è truccato. Non ci sarà mai una «prova di legittimità» davvero accettabile. Non importa che quest’area abbia prodotto pensatori illustri come Marcello Veneziani, scrittori di valore come Pietrangelo Buttafuoco e tanti, tantissimi altri. La destra italiana continuerà sempre – almeno finché resterà in funzione l’attuale sistema politico-mediatico – a essere guardata con sospetto, a essere accusata di connivenze con ambienti deprecabili, a essere considerata brutale, bestiale, meno che umana.
La dimostrazione la offre il numero della storica rivista Il Mulino (pubblicata dall’omonima casa editrice) intitolato appunto «Che succede a destra?». All’interno, numerosi contributi interessanti tra i quali un articolo di Sofia Ventura, professore associato all’Università di Bologna, dipartimento di Scienze politiche e sociali. Che scrive: «Nei due principali partiti della destra italiana troviamo quel nazionalismo escludente accompagnato dall’appello alle persone comuni, presentate come vittime della società multiculturale, proprio della destra radicale populista».
Come si vede, la studiosa utilizza una categoria molto in voga ma estremamente discutibile, quella di «destra radicale» o «estrema destra». Un tempo, venivano riconosciuti come appartenenti a quell’area soltanto movimenti come Forza Nuova o CasaPound. Ma adesso lo spettro è stato ampliato ad arte: vengono considerati estremi e radicali anche due partiti come Lega e Fratelli d’Italia, che certo non sono contrari alla democrazia o favorevoli alla violenza. Ciò basta a chiarire un fatto: l’estrema destra non esiste. È una creazione giornalistica. Un’etichetta utile a screditare gli avversari, appioppata a chiunque osi allontanarsi dall’unica via ritenuta percorribile, quella (cosiddetta) liberale.
All’«estrema destra» si attribuiscono alcune caratteristiche che dovrebbero renderla socialmente pericolosa. Essa, si dice, è antidemocratica. In realtà, i conservatori sono sempre stati strenui difensori della democrazia. Giorgia Meloni, nel libro Io sono Giorgia (Rizzoli), cita più volte sir Roger Scruton, il più grande filosofo conservatore europeo degli ultimi decenni: sfidiamo chiunque a trovare nei suoi scritti tratti «antidemocratici». Peraltro, proprio gli attacchi ricevuti dal libro della Meloni dimostrano chi oggi sia decisamente ostile al pluralismo: da sinistra sono piovuti insulti, tentativi di censura, gesti minacciosi (ricordate i libri posizionati «a testa in giù» nelle librerie Feltrinelli?). Non solo. Posto che, come ogni sistema politico, la democrazia è passibile di critica, tocca notare che oggi i maggiori oppositori del sistema democratico, a livello accademico, sono quasi tutti liberali e progressisti.
Nel mondo «identitario» la questione è stata risolta anni fa da un saggio di Alain de Benoist (Democrazia. Il problema, I libri del Borghese). Ma persino i politologi più autorevoli continuano a basarsi su un paradigma errato. La teoria dell’onda nera in agguato – con tutti i paradossi che la compongono – non è invenzione di oggi. Sappiamo con esattezza quando è venuta al mondo. Per la precisione, il 25 aprile 1995. Quel giorno, alla Columbia University di New York, Umberto Eco pronunciò un discorso intitolato Il fascismo eterno. Di recente quel testo è stato ripubblicato dall’editore La nave di Teseo, in un inquietante volumetto nero, perfetto per rinfocolare il timore del fascio.
Ma che cosa c’è scritto, esattamente, nel libriccino di Eco? Il professore cerca di disegnare una sorta di «identikit del fascista». Spiega che «il termine fascismo si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista». Già questa è un’affermazione perentoria su cui vengono dubbi. Il seguito, però, è anche peggiore. L’Umberto scrive: «Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’Ur-Fascismo, o il Fascismo Eterno. Tali caratteristiche non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo».
In buona sostanza, Eco fornisce la sua lista di caratteristiche del fascista. Certo, alcune si contraddicono tra di loro, ma chi se ne frega. L’importante è allargare lo spettro, dire che il Nemico si annida ovunque. Basta che una sola di tali caratteristiche sia presente «per far coagulare una nebulosa fascista».
Ah, la «nebulosa fascista», che meraviglia. Vi rientrano tutti i movimenti che adottino il «culto della tradizione». Dunque, anche i cattolici tradizionalisti. O alcuni pagani. Anche se costoro, magari, non si definiscono affatto fascisti. In pratica, utilizzando il metro di Eco, si possono definire «fascisti» tutti coloro che non si riconoscono nell’ordine liberale, che oggi è divenuto «liberal» grazie a una patina di progressismo. Alle teorie traballanti di Eco si aggiunge poi il vecchio pregiudizio secondo cui «a destra non esiste cultura». Persino uno studioso serio come Alessandro Campi (già consigliere di Gianfranco Fini) sembra cadere nello stereotipo. Scrive Campi su Il Mulino: «A destra si sono pressoché esaurite tutte le fonti di dibattito e di produzione culturale che in passato hanno contribuito ad alimentarne le posizioni politiche e l’immagine agli occhi dell’elettorato di riferimento».
In realtà, la situazione è molto diversa. A destra l’elaborazione culturale esiste eccome, anzi è fiorente. Solo che viene completamente ignorata dagli intellettuali «presentabili». Le case editrici D’Ettoris, Historica, Giubilei Regnani, Eclettica e Idrovolante sono più vicine all’ambito conservatore. Su un terreno più identitario si muovono Passaggio al bosco, Aspis e Altaforte, che si aggiungono ai marchi storici Aga, Settimo Sigillo, Il Cerchio, Ritter. Ci sono poi marchi come Diana o Gog che è difficile definire «di destra», ma che di sicuro sfuggono alla banalità imperante.
Basta sfogliare i cataloghi di questi marchi per rendersi conto che gli «intellettuali» a destra non mancano. Sono radicali? Talvolta, nelle idee. Sono violenti? Certo che no. Sono antidemocratici a favore della censura? Non possono, perché sono i primi a venire censurati, dunque sono ontologicamente ostili ai bavagli. No, signori, la feroce «destra radicale» non esiste. Esistono, invece, varie declinazioni della destra, da quella liberale tratteggiata da Daniele Capezzone nel bel libro Per una nuova destra (Piemme) fino a quella identitaria ben rappresentata da Adriano Scianca e molti altri, passando per la prospettiva conservatrice di Francesco Giubilei. Alla destra non servono esami del sangue. Alla sinistra ne servirebbe, ogni tanto, uno di realtà.
