Cinquant’anni fa veniva eletto segretario del Pci. Sconosciuto ai più, dal curriculum scarno, i giornalisti lo ribattezzarono «il sardo-muto» per i suoi silenzi. Fu però lui, cercando una sponda con la Dc, a salvare il partito dall’ortodossia russa. Anche se la «grande coalizione» che sognava non si avverò mai.
Non si aspettavano colpi di scena i mille delegati del Partito comunista italiano, convocati al Palalido di Milano, per dare vita al congresso indicato con i numeri romani XIII. In generale, quelle assemblee seguivano un canovaccio già determinato con risultati – quasi – concordati. Ma, quella volta, l’esito apparve, se possibile, ancora più scontato. Il 17 marzo 1972 – cinquant’anni fa – con espressione di voto plebiscitario Enrico Berlinguer venne eletto segretario del Pci. Poiché da anni era – di fatto – il numero uno dell’apparatcik rosso, più che una nomina, sembrò una ratifica.
Il segretario che l’aveva preceduto era Luigi Longo, un alessandrino di Fubine, che non veniva da una famiglia operaia e nemmeno povera. Nel Pci si mostrò calmo e talora gelido. Delegava ad altri questioni burocratiche o incombenze dottrinali. Preferiva l’azione che esercitava in modo duro e, talora, spietato. A Longo toccò prendere posizione quando, il 20 agosto 1968, i carri armati russi entrarono a Praga perché i cecoslovacchi, pur volendo restare comunisti, non ne volevano più sapere del vassallaggio sovietico. Se non proprio di romperla, si trattò di incrinare un’alleanza che, dal dopoguerra, era stata strategica. I dirigenti del Pci chiesero il ritiro delle truppe russe.
A Mosca reagirono. Invitarono i «compagni» per chiedere spiegazioni. Chiesero la pubblicazione di un altro documento di rettifica. I comunisti italiani tennero duro. Non che ci sia un rapporto di causa ed effetto, ma qualche settimana più tardi Luigi Longo venne colpito da un ictus che gli tolse la fluidità della parola e la forza di muoversi autonomamente.
Nel Pci di allora anche le malattie avevano una connotazione borghese tanto da non essere prese in considerazione. Lasciarono la segreteria a Longo anche se non poteva più occuparsene e s’industriarono a individuare qualcuno che, come «vice», il segretario, lo facesse al posto suo.
Non mancavano nomi di spicco: Pietro Ingrao, per esempio, Alessandro Natta o Giorgio Amendola. Scelsero un «uomo nuovo»: Enrico Berlinguer, pur fra la tiepida riluttanza di qualcuno, come Giancarlo Pajetta il quale volle sottolinearne la povertà del curriculum, sostenendo che «s’iscrisse giovanissimo alla direzione del Pci».
In effetti, al momento della nomina, Berlinguer era uno sconosciuto. I cronisti politici a malapena erano al corrente dell’esistenza di quel personaggio, e ritennero che il Pci avesse scelto un burocrate zelante in attesa di indicare una guida del partito più appropriata. Sempre fra i giornalisti che si occupavano di cronache parlamentari, qualcuno, citando i silenzi di Berlinguer, lo battezzò perfidamente «il sardo-muto».
Veniva da Sassari dove i Berlinguer vantavano origini spagnolesche e – insieme ai Siglienti, i Satta Branca, i Delitala e i Segni – erano una delle famiglie che, sull’isola, contavano per davvero. Avevano il diritto di fregiarsi del titolo di «don». Si collocavano fra gli anticlericali che facevano battezzare i figli. Erano benestanti, ma detestavano gli sprechi. Credevano nell’uguaglianza del genere umano, ma si sposavano solo all’interno del loro ambito sociale.
Il nonno – Enrico pure lui – era stato un acceso mazziniano. Il padre Mario aveva esercitato la professione di avvocato, sempre a sinistra, quanto a ideologia ma elegante nel portamento, raffinato nei gusti e forbito nel parlare al punto da essere considerato un «progressista in frac».
Enrico, destinato alla leadership del partito comunista, frequentò il liceo Azuni dove studiò anche Palmiro Togliatti ma, a differenza del suo predecessore che inanellò nove e dieci in pagella, lui faticò a racimolare la sufficienza in tutte le materie. Non si applicava troppo sui libri, ma era considerato un buon giocatore al tavolo del poker e uno discreto a quello del biliardo. S’iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e fu esentato dal servizio militare per una malformazione a un piede.
Mentre molti futuri «quadri» comunisti facevano il loro apprendistato nella «resistenza», Berlinguer poté iscrivere a suo merito un solo episodio – di modico rilievo – accaduto il 13 gennaio 1944. In quei giorni, Sassari era in preda a tumulti popolari di gente che protestava perché mancava il pane per mangiare, il carbone per scaldare casa e il sapone per lavarsi. La polizia fu bersagliata da un lancio di pietre e alcuni forni furono saccheggiati.
Berlinguer si trovò in prima fila e venne additato come uno dei responsabili della rivolta. Per toglierlo dai guai fu necessario l’intervento del padre: per evitare peggiori conseguenze, gli fece cambiare aria facendolo trasferire a Roma dove si stabilì definitivamente, si sposò e si dedicò al comunismo italiano.
Nel Pci fu considerato un togliattiano di ferro. Di Togliatti gli mancavano le esperienze – preziose e atroci – a Mosca, la finezza culturale, il cinismo e la doppiezza. Ma, con il suo garbo naturale e la sua naturale onestà, cercò di «copiare» l’esempio del Migliore nella capacità di padroneggiare il partito, nell’abilità nello scegliere i collaboratori e d’individuarne le attitudini che meglio avrebbero fruttato vantaggi politici.
Prima segretario della Federazione giovanile. Poi Presidente mondiale della gioventù democratica. Poi, ancora, una seggiola al tavolo dei «grandi» della Segreteria e, ancora un passo, nella Direzione. Non sempre una crescita lineare. Ebbe a scontare momenti in chiaroscuro come quando, semi-silurato, lo mandarono a dirigere la scuola di partito.
Nel 1960, a 38 anni, si trovò alla testa dell’organizzazione del Pci. Quel ruolo sembrava ritagliato per lui che aveva dedizione da vendere, che sapeva, con docilità, adattarsi alle questioni nuove e riusciva a immaginare l’evolversi degli avvenimenti un attimo prima del loro concretizzarsi. Rinunciò agli slogan stalinisti che la storia aveva già travolto ma, dell’ideologia sovietica, difese tutto il difendibile.
Ad Amintore Fanfani, che accennò a una crisi del comunismo, rispose piccato. «Abbiamo avuto la capacità di auto-criticarci» scandì, marcando le sillabe che la pronuncia sarda già induriva di per sé. «Quando mai le autorità della Chiesa hanno avuto il coraggio di denunciare le torture agli eretici dell’Inquisizione?». Lo sganciamento definitivo dall’ortodossia rossa avvenne quando comprese che, nonostante i successi elettorali, i comunisti italiani rischiavano la solitudine.
Si rendeva conto che un «rinnovamento» era indispensabile. Il riferimento sovietico si era ingessato nel modello del leader Leonid Breznev e quello cinese si trovava tarantolato in una «rivoluzione culturale» che pareva senza prospettive concrete. E lo stesso Pci, pur riluttante a mettere in piazza i suoi litigi, non era più quel blocco monolitico che risolveva ogni barlume di dissenso nel «centralismo democratico».
Berlinguer immaginò il «compromesso storico» con la Democrazia cristiana. Credeva in una marcia a piccoli passi per contare direttamente nel governo del Paese. Si trovò alle prese con la contestazione studentesca e con gli scioperi «a oltranza» che infiammarono le piazze. Berlinguer non era «dei loro», tanto da accusarne qualche disagio e, tuttavia, si sbracciò, durante l’autunno caldo, in proclami di stampo vetero-populista, indicando al proletariato l’avvenire luminoso che il comunismo avrebbe realizzato. «Ma non hanno dunque ancora capito, i padroni, il governo, che le imponenti lotte degli operai significano che proprio il sistema va trasformato?».
Il sistema resistette anche se lui, con testardaggine e senza risparmiarsi, continuò a lavorare per un modello nuovo che forse stava solo nella sua testa. Fino all’ultimo. A Padova, il 7 giugno 1984, alla vigilia delle elezioni europee ancora esortò: «Compagni, lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda». Continuava il suo comizio ma si capiva che stava male.
«Basta Enrico» gli urlavano da sotto il palco, ma lui voleva terminare il comizio. Lo portarono via a braccia. In albergo si addormentò sul letto per non risvegliarsi. Subito venne battezzato «il più amato». L’Unità uscì con edizioni straordinarie pubblicando in prima pagina un «addio» monumentale.