Il Padiglione Italia, alla Biennale di Venezia, è stato affidato al critico Eugenio Viola, che ha fatto una scelta estrema: presentare un solo autore, Gian Maria Tosatti. E allora qualche domanda viene spontanea. Perché soltanto lui? Gli altri non hanno diritto di esistere?
C’è qualcosa di profondamente ingiusto, e di irrispettoso del lavoro, dell’impegno, della passione degli artisti, nell’uso privatistico della Biennale di Venezia, da parte di critici e curatori che, non rispettando la cadenza che chiederebbe di documentare quanto accaduto nell’avanzamento della ricerca, utilizzano il loro incarico per affermare in modo arbitrario i propri beniamini. Toccò all’attuale direttore del settore Arti visive (che si avvia a una cadenza triennale), quando fu commissario del Padiglione Italia e invitò solo tre artisti. E tutti gli altri, giovani e vecchi, attivi tra una Biennale e l’altra, non meritano di esistere?
Per la prossima edizione il Padiglione Italia è affidato a un (ancora) giovane critico, Eugenio Viola, che esordì con me 15 anni fa con la mostra, censurata da Letizia Moratti, Vade retro. Arte e omosessualità, cui contribuì con intelligenza e ironia. Ha fatto carriera e, con un gesto di superbia senza contegno, ha scelto un solo artista: Gian Maria Tosatti. Sembra un capriccio, e risponde alla galleria che ne ha l’esclusiva: Lia Rumma. Così viene presentato: «Gian Maria Tosatti nasce nel 1980; vive e lavora a Napoli. Formatosi nel campo performativo, inizia a Roma un percorso al confine tra architettura e arti visive, realizzando installazioni site specific. Tra il 2008 e il 2018 vive e lavora a New York, prima di ristabilirsi in Europa… I suoi progetti sono indagini a lungo termine su temi legati al concetto di identità, sia sul piano politico che spirituale».
Nel frattempo, occupando anche lo spazio di chi sceglie gli artisti, Tosatti è stato nominato direttore artistico della Quadriennale di Roma per il triennio 2021-2024. Così ha commentato: «Questo incarico, arrivato quasi simultaneamente alla mia designazione per il padiglione italiano alla Biennale di Venezia sembra il secondo movimento di un unico respiro. Nel mio percorso, l’impegno, a volte faticoso, a volte esaltante, di stimolare la costruzione di dialoghi solidi e critici fra gli artisti è stato una linea di condotta costante. Non ho mai pensato che si potesse scrivere una sola pagina di storia dell’arte che fosse una storia di solitudini. La storia dell’arte è una sinfonia di confronti, serrati, aperti, illuminanti. Questo terrò a mente nel dar corso ad una prospettiva esaltante che torna a responsabilizzare fortemente la figura di un artista».
Un nobile intento per chi sa che la Quadriennale è morta da tempo, e non indica prospettive e nuove strade. Anche durante il fascismo Biennale e Quadriennale furono guidate da artisti: Antonio Maraini e Cipriano Efisio Oppo. Poi, in democrazia, toccò a storici e critici d’arte, Roberto Longhi, Francesco Arcangeli, Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan, Maurizio Calvesi, Giovanni Carandente, Lorenza Trucchi. Capitolo chiuso.
Quando fui chiamato io a dirigere il Padiglione Italia, 11 anni fa, convocai 4.000 artisti, evitando selezioni e predilezioni, e chiedendo a 300 uomini di pensiero, letterati, filosofi, registi, musicisti, da Alberto Arbasino a Marc Fumaroli, da Ermanno Olmi a Wim Wenders, quali fossero gli artisti del nostro tempo degni di memoria. In ogni regione, poi, una commissione indicò lo stato dell’arte, con gli artisti che si erano meglio distinti. Fui molto criticato, ma tentai di fotografare una realtà vasta e magmatica.
Oggi un artista solo appare una straordinaria e autoritaria prepotenza, affidandogli anche il destino dei suoi colleghi. Si preoccupa o si indigna uno dei galleristi più autorevoli che, per decenni, ha intercettato orientamenti e tendenze: Massimo Minini.
In un circostanziato intervento ci fa conoscere la sua posizione, sconcertato e incredulo, stabilendo un dialogo con un altro decano, lo storico direttore della rivista di riferimento per l’arte contemporanea Flash Art, Giancarlo Politi. Ecco la sua riflessione:
«Dunque a parte le nostre polemichette che ci servono per scaldare i muscoli, ecco che ritorna Venezia. Checché se ne dica appuntamento importante. È vero che noi facciamo il possibile per screditarlo, ma finalmente una la imbrocchiamo. La Biennale vacilla ma Venezia fa il miracolo. Tutti entusiasti (di Venezia) e quindi della Biennale. La Biennale fa il punto: cosa è successo in questi due ( o tre) anni? Cosa c’è di nuovo? Cosa c’è di vecchio che sia stato recuperato? Quale situazione nei vari Paesi? Anche se un po’ “ministeriali” le scelte sono di norma oculate, riflettono la situazione delle varie nazioni. Sempre lindi gli scandinavi; muscolosi gli Usa, cammellanti egiziani e limitrofi; neo geo i venezuelani; freddi gli austriaci; russano i russi; tedeschi inglesi francesi lassù in collina ci fanno vedere come si fa; Spagna, Olanda e Belgio sul viale alberato hanno padiglioni di rango.
E l’Italia? Ogni anno criteri diversi: una volta Ida Gianelli invita due; poco dopo Celant invita tre anche lui (Cucchi, Cattelan, Spalletti); poi Szeemann e abolisce il Padiglione Italia per due volte; problema risolto come l’uovo di Colombo; poi arriva Sgarbi ne invita 300 etc. Quest’anno un uomo solo al comando. Chiedo in giro, visto che io non lo conosco. Pochi sanno. Un lavoro “politico”. Mi pare di capire simile a quello del gruppo italiano alla Documenta di 15 anni fa, oppure al lavoro di Jota Castro.
Come tu dici altrove a noi “comunisti”, quindi dovrebbe piacere. E invece io non ci credo. Per una nazione ricca d’arte come la nostra uno solo non va bene. Un solo artista non può rappresentare la complessità italiana con molti artisti giovani di livello, che attendono di essere in Biennale e non ce la fanno. Aspetta il prossimo giro. “Waiting list”. Leggo cosa fa e cosa pensa Tosatti.
Mi pare di sentire le idee già espresse da Stefano Boeri che negli anni Novanta, con Multiplicity, indagava sulle relazioni tra geopolitica e urbanistica, e poi quando, con Solid Sea partecipa nientemeno che a Kassel, nel 2002. Non posso dimenticare Jota Castro a Venezia alla Biennale di Bonami alle Corderie, con Survival Guide for Demonstrators. Spesso ricordo che Guttuso accusò Giorgio Morandi di insensibilità per il suo dipingere bottiglie anche durante la strage di Marzabotto. Ma dopo la guerra dichiarò di essersi sbagliato. Il fatto è che nessuno sta più nella propria pelle. Gli artisti vogliono fare i sociologi, gli scultori fanno film, gli scrittori fanno l’artista, i sarti idem, tu dirai: “E i galleristi come te vogliono far il maître-à-penser”, e si piccano di occuparsi di sociopolitica. Accetto la stoccata, ma non rinuncio a pensare. Cogito ergo sum. Almeno quello. E alla fine sai cosa penso?: “Ma chi sceglie chi sceglie?”.
Vedo che nel tuo amarcord sei stato cauto sulla scelta “napoletana” Viola/Tosatti/Rumma. Mi pare il padiglione di Trione. Gli avevo scritto all’epoca: “Metà sono di Lia Rumma, metà di Napoli”. Mi ha risposto, ha detto che no, ma era lì da vedere, Il fatto è che il Padiglione Italia ogni volta soffre. Questa volta forse “s’offre”, con l’apostrofo. Capisco che Viola è amico di Tosatti e ci crede, ci giura. Lia poi è una garanzia, il marchio di qualità. Ma basta uno sconosciuto sociologo a rappresentarci? a rappresentarmi? È anche ora che ci assumiamo le nostre responsabilità. Avallando tutto e il contrario di tutto, come arte, dando ragione al collettivo artistico Fluxus, abbiamo legittimato un bel pasticcio e abbiamo autorizzato (fornito di autorevolezza) i giovani a occuparsi di tutto, e chiamarlo arte. O no? Sai cosa ti dico? Che quello che ricordo meglio è stato il Padiglione di Sgarbi, così lucidamente orrendo da farsi ricordare. Un po’ come la Biennale del “mongoloide” di Gino De Dominicis. Nessuno lo ha visto, ma tutti se lo ricordano. Unica testimonianza la foto scattata da Flash Art con la signora vecchiotta che si leva gli occhiali per meglio vedere, e par che dica: “Sogno o son desta?”».
Al di là del lusinghiero giudizio sulla mia Biennale, imprevisto, dopo tante polemiche, la chiave della reazione di Minini è nella domanda: «Ma chi sceglie chi sceglie?». Si può risalire, e valutare competenza e autorevolezza. La nomina del curatore del Padiglione Italia è (o era) del ministro della Cultura, anche attraverso il Direttore generale della creatività contemporanea, Onofrio Cutaia, che ne è il Commissario. Negli ultimi anni, e con i precedenti Direttori generali, la procedura si è fatta concorsuale.
Da una proposta di titoli e progetti di vari concorrenti, forse attraverso una commissione interna, non si sa da chi costituita, esce il prescelto. Perché? Come? E senza dargli regole e condizioni. Senza indicare un destino e una vocazione del Padiglione, e lasciando al curatore di esprimere qualunque capriccio. Aprendo la strada a qualunque sospetto. Perché solo Tosatti? Perché non un altro? L’arte contemporanea italiana è questo? E non è proprio Tosatti ad aver detto: «Non ho mai pensato che si potesse scrivere una sola pagina di storia dell’arte che fosse una storia di solitudini. La storia dell’arte è una sinfonia di confronti, serrati, aperti, illuminanti». Con chi si confronta alla Biennale di Venezia, accettando la solitaria convocazione del temerario Viola?
