Home » Attualità » Opinioni » Ricomparse due opere sconosciute di pittori straordinari

Ricomparse due opere sconosciute di pittori straordinari

Ricomparse due opere sconosciute di pittori straordinari

Storia di una scoperta: tra i tanti oggetti in un paio di aste straniere, dei piccoli quadri possono passare inosservati. Ma uno sguardo più attento e appassionato vi intravede la mano di Rosso Fiorentino e Leonardo da Pistoia.


Queste annotazioni derivano da un dialogo a distanza con Ezio Zani, direttore artistico di «Parma Capitale italiana della cultura 2020», già illuminato sindaco di Marcaria, erede dei fasti di Baldassarre Castiglione, nato a Casatico (dove c’è ancora la sua bella grande casa, in una situazione pittoresca che oggi ha carpito tutta la vita del colore locale della Osteria Due platani, luogo remoto e imperdibile), dopo esserci misurati, e anzi sfidati, su una piccola opera di un grande pittore ferrarese, Giovanni Battista Benvenuti detto l’Ortolano apparsa, imprevista, in un’asta a Lisbona.

Un giorno, a Parma, nella riparata Camera della Badessa di San Paolo, me ne mostrò l’immagine, con compiacimento della scoperta e rimpianto per averla persa. Dovetti confidargli che il piccolo dipinto, con una Natività assistita da un San Giovanni Battista in età adulta, era diventato mio. Questo incrocio ci strinse, più che negli incontri del passato, quando concorremmo a restaurare la villa di Cecilia Gallerani, la Dama dell’ermellino di Leonardo, a San Giovanni in Croce.

Con rinnovato vigore abbiamo iniziato un pellegrinaggio nelle sue terre padane, con il caldo afoso delle giornate d’estate, così caro e grato a chi è nato in quei luoghi, in prossimità del Po. La partenza fu da Villa Pasquali, con la chiesa di Sant’Antonio abate disegnata da Antonio Bibiena vicino a Sabbioneta; una tappa è stata alle cupole luminose della chiesa di San Rocco nella stessa Sabbioneta, guidata dalla mano sicura di don Samuele Riva, che lì ha raccolto una pinacoteca di opere disperse.

Memorabili sono state le escursioni ai sopravvissuti Ponti di chiatte, imprescindibili immagini della mia infanzia quando si passava dall’Emilia al Veneto su un ponte di barche mobili tra Ro e Polesella. Distrutto il quale, ne conservano la memoria due in un breve tratto: uno a Torre dell’Oglio tra Cesole e San Matteo delle chiaviche, l’altro a Commessaggio, tuffo nell’Italia anni Cinquanta in uno spazio della memoria in cui entrano i miei genitori, Caterina e Nino, dei quali Pupi Avati si accinge a raccontare la storia nel film Lei mi parla ancora.

Questa divagazione serve a inquadrare un uomo singolare, l’appassionato Ezio Zani, nel rapporto vorace con opere conosciute e frequentate, in un vasto e tempestoso mare dal cui fondo imperturbato emergono frammenti mirabili e sconosciuti. Perché Zani? Perché da lui e, purtroppo, non con lo stesso esito, mi arrivano sorprendenti e concreti fantasmi che qualcuno, più convinto e fortunato, ora contempla in edonistica solitudine.

Devo dire che ho sofferto vedendo l’anarchica famiglia che temo uscita dalla fantasia turbata di Rosso Fiorentino. Si tratta di una «fantasia» di profughi e cospiratori, nata nello stesso spirito turbolento della Sacra famiglia con San Giovannino (conservata al Walters Art Museum di Baltimora) e con le pieghe spigolose della Pala di Villamagna del 1520. Colti come in un rifugio, all’improvviso, i tre personaggi appaiono disturbati. Sembrano veramente creature del Rosso, così come ce lo consegna il Vasari. «Con ciò fusse che il Rosso era, oltra la pittura, dotato di bellissima presenza; il modo del parlar suo era molto grazioso e grave; era bonissimo musico et aveva ottimi termini di filosofia, e quel che importava più che tutte l’altre sue bonissime qualità, fu che egli del continuo nelle composizione delle figure sue era molto poetico, e nel disegno fiero e fondato, con leggiadra maniera e terribilità di cose stravaganti, et un bellissimo compositore di figure».

Proprio così. «Terribilità di cose stravaganti». Mi augurerei che non lo fosse, ma temo che sia proprio di Rosso quella asimmetria, quella «astrattezza delle attitudini, non più usata per gli altri, che fu tenuta cosa stravagante». Ha il carattere dell’unicum, nella composizione e nella invenzione, questa Sacra famiglia, quasi di braccati. E intanto ve la mostro appena uscita, il 24 luglio, da un’asta Var Encheres, in Francia. Non so se Michele Danieli, lo storico dell’arte che assiste e consiglia Zani, la pensa come me. Ma io ho avuto un mancamento. E non saprei a quale altro gancio appenderla.

Di minor potenza, ma di maggior grazia, è l’altra opera «pescata» da Zani, in un’asta di arredi e oggetti insignificanti, sperduta lì con tutta la sua austera maestà: una Venere, olio su tela di cm. 100×75, «dans le goût de Titien», all’asta Osenat, «tableaux, mobilier et objects», lotto numero 126 con una stima di 800-1.200 euro. Ne ha fatti 32.000, davanti all’appostato e basito Zani, impreparato al botto, sia pur contenuto.

La Venere è volata altrove, eppure, all’occhio esperto, si rivela opera certa di Leonardo Grazia, un altro pittore toscano, di Pistoia. E non un comprimario, ma una personalità che esce dalla scuola di Raffaello, allievo di Giovanni Francesco Penni, che si muove tra Firenze, Lucca (dove lascia l’Annunciazione firmata di San Martino), Roma, Napoli.

E romana sembra, nella sua semplicità, la nuova Venere, di algida sintesi. Evidenti sono i riferimenti alle opere del quarto decennio, in particolare a quelle conservate alla Galleria Borghese. Scrive il critico Roberto Cannatà: «Una Lucrezia, olio su lavagna, già ricordata alla metà del Seicento come opera del Grazia e ascritta successivamente alla maniera di Iacopino; una Venere e una Cleopatra attribuite nel passato talvolta a Giulio Romano e in seguito all’ambito di Baldassarre Peruzzi. Si caratterizzano per un gusto semplificativo della forma dalla fredda lucidità alabastrina e dai contorni un po’ duri». Come un animale ferito, Leonardo è sempre alla ricerca di una forma pulita e dai contorni un po’ duri. A Pistoia, dove lasciò l’Annunciazione, dipinto sommamente manieristico, fu guardato con ammirazione, profeta in patria.

Leonardo Grazia è stato di recente riesaminato da un giovane studioso: Pino A. Quartana che, delle opere romane, prima della stagione meridionale a Napoli e a Potenza, negli stessi anni di Giorgio Vasari e di Giovanni De Mio, scrive: «Dalla fredda lucidità alabastrina e dai contorni un po’ duri. Si palesano quelli che potrebbero considerarsi alcuni dei tratti salienti dello stile del Pistoia, riconoscibili in molti dipinti oggi attribuitigli: la predilezione per gli incarnati eburnei, la definizione di volti ovali e la caratterizzazione delle mani affusolate e delle dita allungate».

La critica aveva preso coscienza del pittore con la generazione di autori precedenti la mia, in particolare Federico Zeri e Ferdinando Bologna. In tempi più recenti, grazie al ritrovamento di nuovi documenti, è stato possibile eliminare gli equivoci che si erano creati in sede storico-critica, quando la personalità artistica del Grazia era stata confusa con quella di altri suoi conterranei, quali Leonardo Malatesta, Bartolomeo Guelfo e Leonardo di Bernardino. Pensate come tardi si arriva a comprendere un artista di tanta «grazia» e così nitido stile.

E da qui sono stati importanti gli studi di Pierluigi Leone de Castris (1996) e, appunto, di Roberto Cannatà (2002). In quegli anni poteva accadere, anticipando le cacce ardite di Zani, che io potessi acquistare, senza averla riconosciuta, una grande lavagna con una Lucrezia. Più tardi mi sarebbe apparsa inconfondibile. Poi le opere riappaiono, gli occhi si allenano, le forme tornano riconoscibili. Ed ecco oggi riemergere la Venere, di Grazia.

© Riproduzione Riservata