Quasi quattro anni fa un candidato per caso fu incoronato presidente del Consiglio. Ma della stagione appena passata è destinata a rimanere solo la polvere di 5 stelle.
Da avvocato del popolo ad avvocato senza popolo è un attimo. Giusto il tempo di perdere la poltrona di presidente del Consiglio. La parabola di Giuseppe Conte sarà certamente oggetto di studio, in quanto, tra i leader che si sono affacciati sulla scena di quella che impropriamente viene chiamata seconda Repubblica, la sua è una storia unica e probabilmente irripetibile.
Fino alla primavera di quattro anni fa, il capo politico dei 5 stelle era un perfetto sconosciuto, ignoto non solo all’opinione pubblica, ma anche ai cronisti. Poi, nel pieno delle consultazioni per il nuovo governo, a seguito del terremoto delle elezioni del 18 marzo, ecco spuntare il suo nome. In una delle interviste che gli feci a Palazzo Chigi, fu lui stesso a raccontarmi la sua nomina per caso.
Mentre era in vacanza a Forte dei Marmi, ricevette una telefonata di Luigi Di Maio, che aveva conosciuto nei mesi precedenti e al quale aveva dato una generica disponibilità a impegnarsi a fianco del Movimento. Il futuro ministro degli Esteri gli chiese di poterlo incontrare a Milano insieme con Matteo Salvini. I due, com’era noto, stavano cercando di formare il governo e avevano bisogno di un prestanome.
Dunque, il professore di Diritto dell’Università di Firenze, nonché avvocato civilista con studio ben avviato nella capitale, non si fece attendere e il giorno dopo prese alloggio in un hotel a quattro stelle vicino a piazza Duomo. Fu in una stanza d’albergo che avvenne il meeting tra colui che sarebbe diventato il 65° presidente del Consiglio della Repubblica italiana e i suoi vicepremier. La scena credo sia degna di nota, perché a un certo punto, Di Maio e Salvini, come si fa per la selezione delle veline, dovevano vedere un altro candidato, il professor Giulio Sapelli, e chiesero a Conte di prestare loro la stanza.
Fu così che, mentre si decideva del suo destino, il futuro avvocato del popolo si parcheggiò nella hall, a seguire una partita di Champions. Non so chi giocasse, ma so che alla fine vinse Conte, che ripreso possesso della propria stanza, ebbe la meglio sull’economista piemontese. Così, grazie a uno screening piuttosto limitato, l’allievo di Guido Alpa, ex presidente del Consiglio nazionale forense e nume tutelare del docente di Volturara Appula, si ritrovò premier in pectore.
Nessuno avrebbe scommesso un soldo sulla riuscita di quell’oscuro avvocato di provincia. E infatti all’inizio non riuscì a mettere insieme una squadra che fosse gradita a chi l’aveva scelto, cioè a Di Maio e Salvini, e soddisfacesse Sergio Mattarella. Così, dopo quattro giorni di consultazioni restituì il mandato, ritornandosene mesto a Firenze. Ma il suo ritiro durò poco, appena il tempo di un nuovo giro di consultazioni e di un incarico a un altro professore, questa volta non di Diritto, ma di economia. Anche Carlo Cottarelli, tuttavia, fece flop e così riecco spuntare dal cilindro del capo dello Stato di nuovo Conte.
A fare il miracolo e consentire il ripescaggio, probabilmente fu, più che l’appeal del docente pugliese, l’ombra dello spread, che dopo tre mesi di tira e molla per la formazione del nuovo governo cominciava a dare segni di impazienza. Sta di fatto che il candidato per caso fu incoronato presidente del Consiglio e da lì in poi iniziò la sua carriera politica. In principio non fu facile. Non solo perché Conte era costretto a tenere a bada Di Maio e Salvini, ma perché nessuno lo prendeva davvero sul serio, al punto che le cose più gentili scritte sui giornali lo dipingevano come il vice dei suoi vice.
Il primo governo da lui guidato, quello con la Lega, fu una via crucis, rasserenata solo sul finire da un tweet di Donald Trump, il quale lo ribattezzò «Giuseppi», aumentando l’autostima dell’avvocato. Quando ci fu la crisi del Papeete, cioè l’uscita dalla maggioranza di Salvini, cominciò la seconda vita di Conte, perché lungi dal mollare la poltrona, la «pochette con le unghie» (copyright Roberto D’Agostino) tirò fuori gli artigli, confermando la massima andreottiana che il potere logora chi non ce l’ha.
Da Pinocchio che era nelle mani di leghisti e grillini, Conte si trasformò, riuscendo a impersonare al tempo stesso sia il gatto sia la volpe, e archiviato Salvini si prese la scena, liberandosi dalle catene dei suoi sponsor, comprese quelle dell’uomo che lo aveva inventato, ovvero Luigi Di Maio. Complice la pandemia, il mite docente di Diritto si trasformò in un «conducator» anti-Covid, che sul calar della sera si presentava in tv munito di Dpcm e Rocco Casalino, comunicando agli italiani nuove misure restrittive.
Per mesi i sondaggi gli attribuivano una popolarità che oscurava ogni altro leader e forse, come capita a molti soprattutto se inesperti, il successo gli diede alla testa, fino al punto di non fargli capire che Matteo Renzi, dopo averlo messo in sella con la famosa mossa del cavallo, si preparava a disarcionarlo. Una volta caduto, l’ex premier si è cullato con l’idea di potersi riprendere la scena e insieme Palazzo Chigi, in un misto di velleità e ambizione. Per un po’ ha pensato a fondare un nuovo partito, poi a conquistare quello vecchio di Beppe Grillo, quindi a far cadere Mario Draghi.
Risultato, se subito dopo le dimissioni il suo consenso era ancora alto, forse alimentato dalle «Bimbe di Giuseppe Conte», con un 65% che era secondo solo a quello dell’ex governatore della Bce, ora, dopo gli errori commessi nella trattativa per l’elezione del capo dello Stato, il gradimento è sceso al 35%, un punto sotto quello di Salvini.
Sì, ascesa e discesa sono state rapide, paragonabili forse solo a quelle di Matteo Renzi, due stelle cadenti nel firmamento della politica. L’ultima botta per Conte è stata la decapitazione del Movimento a opera di un giudice, che ha ritenuto illegittima non solo la sua nomina ma anche lo statuto a lungo curato dallo stesso ex premier. Conte ha replicato dicendo che il consenso non gli deriva dalle carte bollate, che è un po’ come se un avvocato dicesse che per lui il codice civile non vale.
Certo, sono lontani i tempi in cui Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini, dioscuri del Pd, lo ritenevano il punto di riferimento della sinistra. Lontano è anche il periodo in cui Rocco Casalino si sedeva a capotavola con Angela Merkel e il suo protetto. Giuseppi oggi è un leader dimezzato, anzi un Conte decaduto, che sogna una rivincita che quasi certamente non ci sarà, anche perché di quella stagione appena passata è destinata a rimanere solo la polvere di 5 stelle.
