Si chiama come la protezione per la moto il «collettivo» che occupa un liceo. E vuole che la protesta sia comoda e con applauso incorporato…
C’è stato un tempo in cui si andava scuola per studiare. Lo so che può sembrare strano. Lo so che può sembrare la solita nostalgia da vecchio bacucco, quello che ricorda ancora i sette re di Roma, anziché esser convinto, come va di moda ora, che Numa Pompilio sia un terzino della Lazio e Anco Marzio, un tiktoker di successo. Eppure è così. C’è stato un tempo in cui quando entrava in classe un professore ci si alzava in piedi, anziché bersagliarlo con lanci di oggetti vari, manco fosse un San Sebastiano in cattedra. C’è stato un tempo in cui solo al sentire risuonare la parola preside («ti mando dal preside», «arriva il preside», etc) calava una sorta di terrore. Era, quella, la scuola che insegnava non solo la storia e la geografia, ma anche le regole, il rispetto, la disciplina. Una scuola «repressiva», una scuola «che opprime», direbbero i ragazzi di oggi. Che ormai si sono convinti che a scuola si vada, soprattutto, per imparare a protestare. Su qualsiasi cosa. Fino ad arrivare a protestare per avere il diritto di protestare.
Non scherzo, è successo al liceo artistico Caravaggio di Milano. Basta leggere questa notiziola, rimasta confinata nelle cronache locali (ma non sfuggita all’occhio attento del nume tutelare), per capire a che cosa è ridotta oggi la scuola. Lunedì 27 febbraio, infatti, gli studenti del «Caravaggio» hanno occupato il loro istituto per la quinta volta da gennaio. Avete letto bene: quinta occupazione da gennaio a oggi. E già la frequenza con cui hanno fatto saltare le lezioni per imporre la loro «didattica alternativa, trasversale e funzionale» (qualsiasi cosa ciò significhi) e «con un approccio che incoraggi il confronto» (tradotto: si fa baldoria), la dice lunga sulla loro idea di scuola. Ma non è ancora niente rispetto alle motivazioni con cui viene presentata l’ultima occupazione: gli studenti, infatti, dichiarano di ribellarsi contro le «sanzioni repressive» (le definiscono così) della preside che ha osato immaginare (pensate un po’) l’ammonizione scritta e perfino la sospensione per chi occupa la scuola. «Siamo costretti a manifestare», spiegano i ragazzi ai giornalisti della cronaca milanese di Repubblica. Si capisce: sono costretti. Del resto, come non capirli? Tu occupi una scuola, ti impadronisci di un bene pubblico, ci bivacchi dentro, impedisci a chi vuol studiare di farlo (chiedere ai colleghi del liceo Manzoni di Milano o dell’Einstein di Torino per informazioni), magari sfasci qualcosa, fai un po’ di casino, sporchi tutto, violi le regole sapendo di farlo, e quella repressiva della preside, anziché applaudirti e complimentarsi, osa immaginare una sanzione? Addirittura «un’ammonizione scritta»? Ma come si permette? «Questo sistema ci opprime». Chiaro: li opprime. E poi questo sistema, oltre a opprimerli, non è abbastanza «antifascista». O meglio: è fascista. In effetti: dare un’ammonizione scritta (leggasi: nota sul diario) a uno che sta occupando la scuola è da sempre un chiaro segno dell’avanzata delle truppe mussoliniane. Anche nel 1922, come è noto, la marcia su Roma avvenne a suon di note sul diario…
Per altro i ragazzi del liceo Caravaggio, guidati dal collettivo Casco (così si fanno chiamare), hanno un’idea chiara di come dev’essere la scuola. Non è importante che insegni la grammatica e la matematica, macché: è importante che «dia la possibilità di sviluppare e portare avanti le nostre passioni e necessità», che «insegni a salvaguardare il nostro futuro e a proteggere gli ecosistemi» e che sia «capace di garantire un’educazione sessuale volta al piacere e al consenso» e che «non reprima la nostra sessualità». Insomma, amore libero fra i banchi, cosa per cui per l’appunto sono particolarmente indicate le occupazioni, al contrario dell’algebra e della geometria che mal si conciliano con l’«educazione sessuale volta al piacere». Ma soprattutto i ragazzi vogliono una scuola in cui loro possano protestare finché vogliono e chi subisce la protesta li applaude. Non è meraviglioso?
È la rivendicazione del diritto alla rivolta con annessa bambagia. Ora: io ho molti dubbi sul fatto che la scuola debba «garantire l’educazione sessuale volta al piacere» e che abbia fra i suoi principali compiti quello di «portare avanti le passioni e le necessità» dei ragazzi. Credo, al contrario, che la scuola debba insegnare a vivere, anche introducendo concetti strani come fatica, impegno, disciplina, rispetto delle regole e degli altri, e penso che per ottenere tutto ciò non si possano soltanto compiacere «le passioni e le necessità» dei ragazzi. Altrimenti sarebbe difficile distinguere la scuola da un pub o da una discoteca. Ma soprattutto non capisco come questi aspiranti ribelli, che si fanno chiamare «collettivo Casco» e occupano cinque volte in un mese la scuola, non si rendano conto che pretendere la rivolta contro il sistema con l’applauso incorporato del sistema medesimo è più ridicolo della loro didattica «trasversale e funzionale». Per carità: se vogliono infrangere le regole, occupare, contestare lo facciano. Ma senza chiedere la benedizione della preside. E senza frignare se si beccano un’ammonizione scritta. n
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