Dalla terra diventata romanzo con Carlo Levi, in Basilicata, muove un itinerario attraverso un Paese smarrito nella contemporaneità. Lo presagiva già Pier Paolo Pasolini e oggi lo racconta Franco Arminio, poeta e narratore di anime dei luoghi.
Andai anni fa, ad Aliano, dove sono tornato quest’anno per ricevere, da Raffaele Nigro, con Roberto Pazzi (lui con il romanzo Hotel Padreterno, dove si racconta di un ritorno di Dio sulla terra; io per il saggio Raffaello, un Dio mortale), il Premio Carlo Levi. Aliano è un luogo fuori dal mondo. È il teatro di Cristo si è fermato a Eboli; ed è circondato, come un’isola emersa da un mare di terra, dagli indimenticabili calanchi che si perdono a vista d’occhio, pendii generati dall’erosione di rocce argillose, brulle, senza vegetazione.
Ad Aliano sei al centro del niente ma , tra i muri delle case, dove ha lungamente camminato Carlo Levi, c’è una densità di pensiero così straordinaria da stordire. Raffaele Nigro è oggi il più importante scrittore lucano, ha una moralità antica ma non rigida, un temperamento festoso come chi ha avuto il privilegio di vivere nei luoghi integri e protetti dal degrado che cancella tradizioni e costumi antichi, legati al mondo contadino. La realtà in lui si fa realismo magico, rinnovando usi e leggende in luoghi riparati, tra Basento e Ofanto. È la terza volta che vengo ad Aliano, e tutto è fermo. Ritrovo il sindaco Luigi De Lorenzo, ritrovo Don Pierino Dilenge, ma non vedo Franco Arminio, e ne chiedo a Nigro, al sindaco, al prete; e li trovo evasivi. Dopo Carlo Levi era stato lui a riaccendere l’attenzione su Aliano, con una leggerezza che confinava con la inesistenza, identificandosi nei luoghi dei quali era diventato l’elfo, annullandosi in loro. Animava un festival ad Aliano, proponendosi non come poeta, ma come «paesologo». Aveva inventato il primo festival di paesologia: La luna e i calanchi.
Personaggio singolare, non un profeta, non un predicatore, ma letteralmente un genius loci, anche lontano dai suoi luoghi (Arminio è nato a Bisaccia, nell’Avellinese) e dotato di un carisma che si manifesta(va) in leggendarie passeggiate o scalate tra i calanchi, per null’altro respirarne che il silenzio. Del suo festival ricordo le escursioni in una natura incontaminata di cui, con il solo camminare, contemplare, stare fermi, rivelava lo spirito. Dopo il primo incontro abbiamo mantenuto rapporti epistolari, e non avrei saputo dirvi quale fosse la sua vocazione o il suo destino; però non avrei detto, come tanti disperati solitari, onanisti, un «poeta» (ho scoperto poi, guardato con sospetto da quanti hanno avuto meno fortuna di lui, come accade nel mondo astratto delle lettere) ma, letteralmente, un «paesologo», una variante marginale e non ideologica di Carlo Petrini.
Così ne ho percepito la unicità, e ho tentato di definirlo. Da qualche tempo però ho visto esprimersi la sua natura volatile, imprendibile in quella più consistente, e perfino professionale, del poeta. Poeta è un artigiano inconsapevole che lavora con le parole, e i poeti stanno tutti in un paese dove si cammina volando nel sogno. Ma Arminio era un paesologo, e la sua assenza da Aliano mi insospettiva. Così, a vederlo lontano dai calanchi, da uno spazio reale, trovandolo nelle parole, ho preso atto che era un poeta. L’ho perfino visto in un libro eloquente, acquistato in autostrada (la dimensione da lui più lontana): Cedi la strada agli alberi. Proprio in questo libro manifesta un’insolita consapevolezza: «Una volta c’era la letteratura e poi c’erano gli scrittori. Immaginate un mare con i pesci dentro. Adesso ci sono solo i pesci, tanti, di tutte le taglie, ma il mare è come se fosse sparito».
Sparito il mare di calanchi, sotto la luna, Arminio si scopre affine a Pasolini cui indirizza una lettera: «Per leggerti doveva venire qualcuno da Milano / all’osteria di mio padre, / a Bisaccia non arrivava il Corriere della Sera, io ero inquieto come adesso, / forse anche per me la radice / del male era nell’amore impossibile / per mia madre. / Ora che tu sei morto e io sono già quasi vecchio/ posso dire che siamo due bestie, / e che nulla abbiamo da spartire / con la socialdemocrazia dello spirito / che si è diffusa nei poveri e nei ricchi. / La poesia è dei santi e delle bestie, / mai dei colti e dei precisi. / Dovevamo fare i briganti, / i piromani, i banditi, / e invece abbiamo umiliato la nostra violenza / tra le righe. / L’Italia di oggi / ha perso miseria e garbo, / ha perso l’altezza e la bassezza, / è tutto un via vai di pensieri / a mezz’aria, / perfino nei corpi / a volte non c’è storia. / La fame dei corpi che tu avevi / ora sarebbe senza rimedio, /saresti un morto di fame».
Il pensiero è chiaro, l’ambizione alta. Arminio fa riferimento ai versi indimenticabili, indirizzati, come una supplica, da Pasolini a sua madre. In essi svela la sua condizione di infelicità, la sua impossibilità di amare. È un grido disperato che in Arminio si mortifica in un gemito per il disagio dei tempi, per il degrado della società, per la violenza che il mondo contadino ha patito, un vero e proprio genocidio; non per un destino individuale: «È difficile dire con parole di figlio /ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. / Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, / ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore. / Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: / è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. /Sei insostituibile. Per questo è dannata / alla solitudine la vita che mi hai data. / E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame / d’amore, dell’amore di corpi senza anima. / Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu / sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: / ho passato l’infanzia schiavo di questo senso / alto, irrimediabile, di un impegno immenso. / Era l’unico modo per sentire la vita, l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita. / Sopravviviamo: ed è la confusione / di una vita rinata fuori dalla ragione. / Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. / Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…».
Pasolini ha vissuto il trauma fra il 1950 e la sua morte, nel 1975. È stato un passaggio d’epoca di cui è stato testimone consapevole e disperato. Ha visto la fine di un mondo di cui Arminio può solo prendere atto. Restano i calanchi, non c’è più il popolo. Il primo ad avvertirlo, più vecchio di Pasolini (era nato nel 1905), fu Leo Longanesi, che scrisse nel 1957, sul punto di andarsene, lasciando, da sponde opposte, il testimone a Pasolini, una pagina di impressionante evidenza.
È l’inizio della fine: «La miseria è ancora l’unica forza vitale del Paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custodite soltanto dalla miseria. Dove essa è sopraffatta dal sopraggiungere del capitalismo, ecco che si assiste alla completa rovina di ogni patrimonio artistico e morale. Perché il povero è di antica tradizione e vive in una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi, mentre il ricco è di fresca data, improvvisato, nemico di tutto ciò che lo ha preceduto e che l’umilia. La sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall’imbroglio, da facili traffici, sempre o quasi, imitando qualcosa che è nato fuori di qui. Perciò quando l’Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga, noi ci troveremo a vivere in un Paese di cui non conosceremo più né il volto né l’anima».
È accaduto. E oggi Arminio, impotente, ne vede le conseguenze. Il percorso è inevitabile, i calanchi si dileguano. Pasolini indica la sua contraddizione, ha coscienza del passaggio dentro il quale vive, ne soffre, non può fermarlo. Longanesi capisce un attimo prima, Pasolini è dentro, Arminio è oltre. Tutti noi, più giovani, Nigro, Pazzi e io, che abbiamo conosciuto Pasolini a Ferrara, Arminio, più giovane, abbiamo visto le ultime ore di quel mondo perduto.
Ancora bambini, nel 1962, in Poesia in forma di rosa, Pasolini ci avvertiva: «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. / Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone. / O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, / cui io sussisto, per privilegio d’anagrafe, / dall’orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. / E io, feto adulto, mi aggiro, più moderno d’ogni moderno, a cercare fratelli che non sono più». Oggi, con un ghigno disperato, ne prende atto Arminio. Vede le rovine, vive; non gli uomini, morti: «Craco, Romagnano, Roscigno, Aquilonia, Conza, Apice. Prendete un paese del Sud italiano, svuotatelo di tutti i suoi abitanti, guardate come diventa bello, guardate come diventa vivo».
