Home » Attualità » Opinioni » Canova, l’ombra che c’è nella luce

Canova, l’ombra che c’è nella luce

Canova, l’ombra che c’è nella luce

Il grande interprete del Neoclassicismo ha lasciato un segno potente che ha influenzato le successive espressioni dell’arte. Al museo Mart di Rovereto un’esposizione fa dialogare la bellezza delle sue opere con i lavori di scultori e fotografi, quelli «ufficiali» e quelli «eretici».


Non ho dubbi che sarà questa, che apre le celebrazioni canoviane per il secondo centenario della morte dell’artista, la più bella, la più originale delle mostre sullo scultore. In attesa delle iniziative ufficiali del Comitato da me presieduto che, nella Gipsoteca di Possagno, si muoveranno in tre tempi e in tre temi nel 2022: Canova e la scultura contemporanea, Il Monumento Mellerio a villa “il Gernetto” di Lesmo e Arte e potere.

«Le opere di Fidia sono vera carne, cioè la bella natura. Devo confessarvi, caro amico, che l’aver veduto queste belle cose ha solleticato il mio amor proprio, perché sempre io sono stato di sentimento che i grandi maestri avessero dovuto operare in questo modo e non altrimenti». Così Antonio Canova davanti al maestro antico scrive al suo amico accademico di Francia, Quatremère de Quincy.

La conoscenza e lo studio delle opere classiche erano per lo scultore cose diverse dalla semplice imitazione. E nei suoi gessi Canova insegue l’epidermide dei suoi modelli che attendono di essere restituiti alla vita con analoghi mezzi o con riproduzioni. Ora siamo noi davanti a lui. Alla sua luce, alla vita vibrante nel marmo: «Vera carne».

La mostra del Mart di Rovereto si avvale del prestito di alcuni fondamentali gessi, marmi, dipinti della Gipsoteca e, partendo di lì, propone un itinerario di interpreti ufficiali ed eretici, nel mondo della fotografia, sia di studio e d’interpretazione dei gruppi canoviani, sia di conferente ispirazione al tema del nudo femminile e maschile. Il risultato è sorprendente, emozionante, originale, innovativo.

Ho avuto fortuna, ho voluto continuare il percorso intrapreso con la mostra di Caravaggio in dialogo con Burri e Pier Paolo Pasolini, per indicare la connessione tra arte antica e moderna, se non la contemporaneità dei grandi maestri e delle loro idee con gli interpreti del nostro tempo. Così si è fatto con Sandro Botticelli e così con Raffaello Sanzio, e ho pensato salomonicamente di affidare ai due responsabili di settore, per l’arte moderna e per l’arte contemporanea, gli accostamenti ai grandi maestri: Raffaello a Beatrice Avanzi, Botticelli a Denis Isaia.

In questo Olimpo, e con lo stimolo delle celebrazioni per il secondo centenario, non poteva mancare l’ultimo grande artista classico: Canova. E, con la griglia che ho sopra indicato, ho affidato la spartizione del suo corpo artistico a entrambi i curatori, che hanno lavorato in armonia, con mirabili risultati, realizzando e superando i miei desideri.

La mostra è incomparabilmente bella, ed è integrata dalla sfida di alcuni scultori contemporanei, tutti in gara con Canova: da Man Ray a Igor Mitoraj, da Francesco Messina a Giuseppe Bergomi, da Antonio Berti a Fabio Viale, da Adolfo Wildt a Giuseppe Ducrot, da Tommaso Bertolino a Belarghes, da Giulio Paolini a Livio Scarpella, da Jeff Koons a Vanessa Beecroft, da Marcello Tommasi a Filippo Dobrilla, da Attilio Pierelli a Egidio Casagrande, da Aron Demetz a Emanuele Stifano, da David Altmejd a Ettore Greco, da Leone Tommasi a Elena Mutinelli, da Andrea Salvadori a Massimiliano Pelletti, da Luigi Prevedel a Belarghes. Cui si aggiunge, con il suo talento scongelato dalla frigidezza del design, sulla scia di Gaetano Pesce, Fabio Novembre.

Un tripudio vero e proprio viene dalla parte più nuova, essenzialmente quella della fotografia, per e contro Canova. Dopo le fotografie «ufficiali» di Alinari e di Giuseppe Fini, volute da Luigi Coletti per la mostra del 1957 a Treviso, offrono di Canova un’interpretazione classica e fedele Aurelio Amendola e Mimmo Jodice (resistente a concedersi al confronto con gli altri). Tentano il colore, con diversi e scandalosi effetti, Paolo Marton e Massimo Listri, fotografo di spazi.

Ma a partire dal lavoro con Luigi Spina sui gessi di Possagno, in quattro tempi, documento e interpretazione, è stato forte lo stimolo a cercare concorrenti extra moenia, nelle libere interpretazioni dei fotografi sul nudo. Alternativamente accademico ed erotico. Ma con incomparabile tensione.In ognuno.

Intanto, cosa vede, cosa cerca Luigi Spina in Canova? L’opposto di quello che Canova vuole essere: l’imperfezione. Da lì non è difficile scivolare, per potente contrapposizione nel medesimo rigore formale, verso Robert Mapplethorpe, in una serie di meravigliosi corpi a corpo con Canova. E quali corpi!

Ecco, in primis, con il rimbrotto di Mormorio, Helmut Newton. E poi, con ditirambico compiacimento degli scatenati curatori, da me inzigati, i precursori: Wilhelm von Gloeden ed Edward Weston, gli affini Irving Penn e Heikoh Hosoe, fino allo slancio finale e dionisiaco di Miroslav Tichý, in una vera e propria monografia in forma di diario erotico (come il Settore privato dell’incommensurabile Paul Léautaud).

Ad altre imperfezioni decadenti, tormentate e malate ci accompagnano Garo Keshishian, Bettina Rheims, Dino Pedriali; e gli sconfinati edonisti, traviati ma sempre sublimi, Jan Saudek e Joel-Peter Witkin. Non si può andare oltre, ci si ferma travolti davanti alle pingui nudità della modella nana di Saudek o alle carni frollate delle tre «transgrazie» di Witkin; e si dimentica Canova. Anche quando è Witkin a evocarlo, in Canova’s Venus. Si gode oltremisura, e si capisce Canova. Quante cose svela questa mostra!

Apparentemente impertinente, ma innamorata di Canova vivo, alla ricerca di ogni stimolo, in quel «combattimento per un’immagine» che, nel confronto tra fotografi e pittori, Luigi Carluccio e Daniela Palazzoli avevano perseguito nella memorabile mostra torinese del 1973. Carluccio non aveva pensato a Canova che, a parte l’eresia di Marton, esiste solo in bianco e nero, benché in infinite sfumature, come è proprio della carne umana.

Il combattimento per un’immagine che abbiamo messo in scena oggi a Rovereto è tutto con e contro Canova, ed è tutto in bianco e nero; e l’inatteso risultato è sorprendente, carico di vitalità e di benefica euforia. Dal giorno alla notte, dalla luce al buio, trasferisce l’esaltazione per i nudi peccaminosi Dino Pedriali, che va oltre la soglia sulla quale si era fermato Canova, stabilendo un ponte tra la vita sordida e tumultuosa del sesso e il teatro della morte di Witkin. Estremo, radicale e fedele interprete di Canova. Con quali occhi e quale cuore Canova avrebbe guardato Witkin e Pedriali? Con quale brivido giacente dentro di lui? Fino a che punto avrebbe potuto resistere?

Noi siamo certamente andati oltre. Il primo a rovesciare Canova fu, con la finzione del mito, Wilhelm von Gloeden. È un chiaro punto d’arrivo. L’omosessualità ha le sue colonne d’Ercole in Canova. Puro e incontaminato, lo traduce nella più rigorosa sintassi gay Robert Mapplethorpe, superato il mondo dei morti (vitalissima necrofilia) di Witkin.

Le sculture di Canova si accendono di nuova vita, e la fotografia in bianco e nero rianima, con i corpi dei morti, le statue, umanizzando il mito, come aveva fatto per primo, vivo Canova, Ugo Foscolo ne Le Grazie: «Alle Grazie piace la voce pudica / e l’offerta riservata; ora uscite / dalle stanze materne dove state solitarie / e l’Amore vi tende trappole, oh giovani donne uscite; / l’Amore promette gioia e invece dà sofferenza». Caldo e vero.

Le atletiche forma di Mapplethorpe e le macerate carni di Witkin agitano il marmo di Canova, lo fanno vivere. Ma le Tre Grazie sono Tre uomini. Il combattimento ha un vincitore che comprende le forme chiuse, i turbamenti e l’eros incontenibile dei due fotografi. Canova vive! Lo sapeva anche Canova quando muoveva le sue mani nell’argilla per plasmarla, trasmettendo alla terra l’anima delle sue dita, come aveva imparato dal suo maestro Giuseppe Bernardi, sempre secondo i precetti di Winckelmann: «Abbozzare con fuoco ed eseguire con flemma».

Sono le due anime di Canova. Come ci ricorda Giuseppe Sava: «È lo stesso modo concitato di modellare, in aperto contrasto con la lenta e sensibilissima finitura della superficie del marmo». Da lì inizia il viaggio. Da Canova a Mappletorphe. Senza ritorno. Oltre Canova, dopo Arthur Rimbaud e il suo «deragliamento dei sensi»: «Le Poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens».

© Riproduzione Riservata