Si fa presto a fare il politico se quando ti chiedono di commentare una fabbrica che chiude dici che si devono punire le aziende che licenziano, obbligandole a tener aperti gli stabilimenti. Più difficile è capire perché quelle società se ne vanno e mandano a casa le persone, lasciandole senza stipendio.
Quando da giovane cronista, oltre quarant’anni fa, il giornale per cui lavoravo mi spediva davanti ai cancelli di una fabbrica, per parlare con i lavoratori rimasti disoccupati, ricordo che la prima domanda che facevo era perché il padrone avesse tirato giù la serranda. Ed escluso che lo avesse fatto per dispetto ai dipendenti, o ai sindacati, non mi accontentavo degli slogan di Cgil Cisl e Uil, scoprendo che alla base c’erano quasi sempre errori imprenditoriali, ma anche improvvisi cambiamenti nei gusti del mercato oppure l’innovazione tecnologica che aveva resa obsoleta la produzione. Perché le aziende sono come le persone: nascono, crescono ma capita anche che muoiano per un accidente o di vecchiaia.
Ciò detto, tutto questo mi è passato davanti agli occhi mentre qualche sera fa, in tv, ascoltavo Laura Boldrini. Bianca Berlinguer aveva appena mostrato al pubblico un servizio sulla chiusura di un paio di fabbriche piemontesi e l’ex presidente della Camera si era lanciata in una filippica contro le multinazionali che delocalizzano, sollecitando interventi per impedire il trasferimento dei macchinari. Peccato che nei casi citati non ci fosse alcun trasloco in corso, ma semplicemente la fine della produzione.
Già, perché a chiudere erano industrie che lavoravano per il settore automobilistico e in almeno in un caso specializzate nella produzione della componentistica dei motori diesel. Il settore dell’auto vive da tempo un calo delle vendite ed è in fase di ristrutturazione, con fusioni fra marchi e conseguente riduzione di personale. Ma per le macchine diesel è anche peggio. Indicate come la causa dell’inquinamento sono bandite dai centri storici (l’ultimo caso è quello di Roma, dove il sindaco Virginia Raggi, a causa dell’aumento delle polveri nocive, ha fermato anche i veicoli Euro 6, cioè quelli ritenuti più puliti). Risultato, chi deve cambiare macchina si guarda bene dal comprarne una che domani potrebbe essere costretto da una direttiva a lasciare a casa.
Per ovviare al trend negativo, le case automobilistiche si stanno buttando sull’elettrico, ovvero su motori che non inquinino e che non rischino il fermo macchina. Ma per produrre un’auto elettrica non servono motori, pistoni, ingranaggi, marmitte, tubi di scappamento, serbatoi, liquidi di raffreddamento, olio, eccetera eccetera. Per far muovere le quattro ruote è sufficiente una batteria. Poi, sì, serve un volante, degli pneumatici e degli ammortizzatori, ma è evidente che un’intera filiera produttiva non è più necessaria. E se all’improvviso un’azienda che produce tubi per auto o componenti per i motori diesel si sente dire che i suoi prodotti non servono più, che volete che faccia? In barba alle perentorie dichiarazioni di Laura Boldrini che in tv con il ciglio umido minaccia sanzioni, chiude.
L’aspetto incredibile è che a reagire con sorpresa di fronte ai licenziamenti sono quegli stessi politici che predicano la difesa dell’ambiente e applaudono Greta Thunberg, senza rendersi conto che la scelta di cambiare non è gratis, ma ha conseguenze pesanti sull’economia e sul lavoro. Su questo i politici non riflettono, perché vanno in cerca dell’ultima moda del momento e quando non sanno che dire si appellano all’Europa, affermando che serve una politica comunitaria. Dimenticando anche in questo caso di sottolineare che le aziende in difficoltà a volte traslocano in Paesi vicini sovvenzionati con i fondi Ue che usano per attirare, con tasse «flat», imprese che hanno sede all’interno della stessa Europa.
Sì, si fa presto a fare politica se non si è mai vista da vicino una catena di montaggio o una fabbrica. Basta dire che si è solidali con i lavoratori e poi, finita la seconda serata, tutti a nanna, convinti di aver dato un aiuto al Paese.
