Nel mondo del lavoro la condizione femminile è fortemente penalizzata rispetto a quella maschile. E nei trattamenti pensionistici la disparità risulta ancora più evidente.
Non c’è nulla da fare, quando si parla del rapporto fra donne ed economia il confronto con gli uomini è a dir poco insostenibile. È proprio un vizio di fondo che nel nostro Paese determina un varco ben più profondo di quello che c’è tra i due generi in altri Stati europei. Dagli stipendi alle carriere, dal raggiungimento delle posizioni apicali alla gestione del rapporto tra maternità e lavoro, la posizione dell’uomo lavoratore è sempre privilegiata nei confronti della donna lavoratrice, che sia un’operaia, una ricercatrice, che intraprenda la carriera dell’insegnamento universitario, che svolga qualsiasi altra occupazione nel settore privato.
E quando c’è un momento di crisi particolare come è stata – e purtroppo continua a essere – quella rappresentata dal Covid, ancora una volta le donne sono coloro che usciranno nel modo peggiore dalla pandemia. Secondo l’Inps è aumentata la precarietà dei loro impieghi, ha riguardato loro il 70% dei contagi del virus sul lavoro e l’80% dei congedi Covid a stipendio dimezzato per poter seguire i figli a casa durante la didattica a distanza. Ma basterebbe pensare all’ormai cronico distacco tra il tasso di occupazione italiano che dal 50,1% del 2019 è sceso al 47,5% contro una media europea del 62,4%. Questo dato evidenzia quanto le donne italiane partecipino al mondo del lavoro in misura inferiore rispetto a quelle degli altri Paesi europei.
Tutto ciò si riflette poi sulle pensioni perché, soprattutto con l’introduzione del sistema contributivo, sempre di più corrisponderanno a quanto è stato cumulato, a quanti versamenti si sono fatti, a quanto si è concorso a rimpinguare le casse dell’Inps. È evidente che con un percorso accidentato, pieno di tranelli, discontinuo e sfavorito per quanto viene guadagnato, cioè lo stipendio, difficilmente le donne riescono a mettere insieme, pure in tanti anni di lavoro, una pensione che possa definirsi dignitosa. E non parliamo di quelle di vecchiaia, di invalidità, sociali o altro. Parliamo delle pensioni di lavoratrici.
Prima di vedere alcuni dati disastrosi, sempre ricavati dai documenti dell’Inps, vogliamo anche soffermarci su un problema che negli ultimi anni è stato toccato a volte da politici di diversi orientamenti, senza però che la situazione sia concretamente mutata. La questione è la seguente. Le donne che svolgono il lavoro domestico sono da considerarsi lavoratrici o no ai fini pensionistici? Una domanda non peregrina, perché riguarda un lavoro effettivo, reale, talora molto impegnativo che certamente non è regolato da un contratto né di collaborazione, né di assunzione, né di qualsiasi altra forma.
Ma la domanda – lo ripetiamo – è un’altra: si tratta di lavoro o no? E a seguire: se si tratta di lavoro, è da considerarsi ai fini pensionistici o no? Questo tema meriterebbe un articolo a parte e magari ce ne occuperemo in un altro momento, è tuttavia va affrontato perché spesso la discontinuità dell’occupazione delle donne – e la conseguente esiguità dell’assegno pensionistico – dipende proprio dal fatto che loro, soprattutto in certi periodi, non riescono a conciliare l’impegno domestico (detto riduttivamente «maternità») e una carriera lavorativa presso un’azienda che non sia la famiglia.
Se andiamo a vedere che cosa è successo in alcuni casi, per esempio con la famosa Opzione donna, le 128.000 donne che hanno usato questo strumento per lasciare il proprio ruolo tra i 58 e i 59 anni, con 35 di contributi, si sono viste decurtare la pensione del 33%. È la percentuale dovuta al ricalcolo di tutta la pensione col sistema contributivo, cioè, lo ripetiamo, in base a ciò che avevano versato. L’Inps ci informa che il 90 per cento delle 17 mila donne che hanno scelto questa opzione nel 2020 ha ricevuto una pensione sotto i mille euro e il 62 per cento di loro sono lavoratrici del settore privato.
Non cambia la situazione con Quota 100. Ci dice ancora l’Inps che nei due anni di applicazione della legge le donne sono 77.218 su 267.802 uomini e – come se non bastasse – il 60% di loro ha lavorato nel settore pubblico. Inoltre un ritiro anticipato con 41 anni di contributi, per tutti i motivi accennati riguardo alla loro carriera lavorativa, è quasi impossibile per le donne che si vedono diminuiti prima gli stipendi e poi le pensioni. Insomma, evidentemente è tutto un sistema da rivedere.