Per tre settimane l’attacco egiziano a Israele tenne il mondo con il fiato sospeso. Ma dopo le prime vittorie del Cairo, Tel Aviv reagì. E cambiò le sorti di quel conflitto e del suo futuro.
Tentando di schiacciare Israele, come fossero state le ganasce di una tenaglia, le divisioni corazzate dell’Egitto si mossero da sud mentre quelle della Siria presero a combattere da nord. E scelsero di attaccare la sera del 6 ottobre 1973 (cinquant’anni fa) sorprendendo i nemici nella condizione di massima vulnerabilità. Erano appena iniziate le celebrazioni per lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, nel corso delle quali il mondo ebraico si ferma. Ogni attività viene abbandonata per dedicarsi completamente alla preghiera. Non si cucina e non si mangia; non si utilizza il gas e non si accende la luce; non si guida ed è come se non esistessero né radio né televisione: 26-27 ore di un blackout autoimposto dall’imbrunire del primo giorno allo spuntare delle stelle del successivo. I soldati lasciano le caserme per frequentare la sinagoga. Per cui, quella «arabo-israeliana» è più facilmente definita come «la guerra del Kippur».
Tre settimane di conflitto (fino al 25 ottobre) si conclusero con un nulla di fatto: 10 mila morti per parte, duemila mezzi distrutti per ciascuno e identiche condizioni politiche della vigilia. Ma il «pareggio» non rimase senza conseguenze. I Paesi arabi imposero un embargo alla vendita del petrolio che obbligò l’Occidente a politiche di riduzione energetica impensabili fino a quel momento. L’Italia vietò l’uso delle auto la domenica e ci si dovette muovere a piedi. Il più risoluto nel cercare il conflitto fu il presidente dell’Egitto, Anwar al-Sadat, che voleva vendicare la sconfitta rimediata dal suo predecessore Gamal Abd el-Nasser sei anni prima quando i «Sei giorni» (nel 1963) erano bastati per metterlo in ginocchio. Che il suo obiettivo fosse aggredire Tel Aviv non lo nascose certo. A tutti i giornalisti che lo incontrarono, dichiarò che si stava preparando un esercito per invadere Israele dal Sinai. La sua politica ottenne l’adesione della maggior parte delle nazioni arabe anche se solo Hafiz al-Asad, padre dell’attuale dittatore siriano Bashar al-Assad, si offrì di affiancarlo direttamente nell’attacco. Gli altri Stati della regione della «mezzaluna fertile» mandarono uomini e mezzi, si spesero nell’acquisto di armamenti e, con azioni diplomatiche, acquisirono il consenso di «estranei» come Cuba, Sudan o Corea del Nord. Il Pakistan inviò 16 piloti di elicottero. Mu’ammar Gheddafi finanziò l’impresa con un milione di dollari. E, a favore di una guerra che pareva un regolamento di conti, pur soltanto a parole non disponendo di risorse, si espresse il numero uno palestinese Yasser Arafat perché, in caso di vittoria, avrebbe avuto in dono i territori conquistati.
L’unico a non persuadersi del progetto e dell’alleanza fu il re Husayn di Giordania che finse di aderire alla coalizione per fare il doppio gioco. Nell’imminenza dell’attacco, volò segretamente a Tel Aviv per incontrare la premier Golda Meir, il suo ministro della Difesa Moshe Dayan e il capo di Stato maggiore David Elazar. Li mise al corrente delle intenzioni di Sadat ma non venne preso sul serio perché insistette sul fatto che le truppe egiziane e siriane erano già pronte a varcare i confini. Agli israeliani, che disponevano (e dispongono) di un servizio segreto super affidabile, non risultava e preferirono affidarsi alle proprie indiscrezioni (inaffidabili) piuttosto che alla «spiata» (documentata) del migliore dei loro nemici. Perciò, quando i carri armati attraversarono le frontiere del Sinai e le alture del Golan, si trovarono doppiamente impreparati. Non disponevano di un piano di difesa adeguato e mancavano fisicamente degli uomini che erano stati mandati in licenza per lo Yom Kippur. Al contrario, gli ufficiali dello stato maggiore egiziano si mossero assecondando una strategia studiata puntigliosamente a tavolino. Intanto riuscirono a produrre finte relazioni per denunciare la quasi totale mancanza di pezzi di ricambio: documenti che, lasciati intercettare a bella posta, ingannarono i nemici sulla loro capacità bellica.
Riuscirono a tenere nascosti gli ordini d’attacco, comunicati ai reparti praticamente al momento di partire. E si comportarono sul campo con la leggerezza che si mostra durante una parata militare. Mobilitarono 700 mila uomini con 1.500 autoblinde e armamenti di prim’ordine (forniti dall’Unione Sovietica). Un soldato ogni tre disponeva di un’arma anticarro capace di sfondare la lamiere d’acciaio degli automezzi nemici. Il primo ostacolo da superare era la linea di fortificazioni di difesa: 16 piazzeforti in posizione più avanzata e 11 a protezione della prima retrovia. Erano stati costruiti con poderose strutture di cemento ma nascoste in enormi terrazze di sabbia compressa. L’esperienza aveva dimostrato che era impossibile bombardarle con efficacia ma gli egiziani superarono il problema utilizzando batterie di idranti. I getti d’acqua a cascata sciolsero i ripari e misero a nudo le strutture che a qual punto potevano essere colpite. Gli egiziani furono accorti nel prevedere un’immediata risposta militare perciò, dopo il primo risultato, non avanzarono ma si attestarono in attesa dell’attacco nemico. Gli israeliani, richiamati in servizio, si lanciarono in assalti frontali, coraggiosi ma disordinati, quasi rispondendo all’emozione più che alla razionalità della guerra.
Non furono d’aiuto i litigi dei comandanti in prima linea, ognuno dei quali mise in atto una sua strategia non necessariamente coerente con quella praticata dal vicino. Il generale Shmuel Gonen non sopportava il generale Ariel Sharon il quale – per via del suo «carattere intrattabile» – si trovava in perenne conflitto con il generale Bren Adan. La controffensiva si rivelò un massacro. Al nord, sull’altopiano del Golan, due brigate israeliane con 180 carri vennero attaccate da cinque divisioni siriane con 1.400 mezzi corazzati. In quella zona il terreno roccioso e molto accidentato giocò a favore della difesa. Gli arabi presero il controllo di Monte Hermon – la «montagna del vecchio» – che consentiva il controllo dell’intera area ma furono fermati al passo di Rafid da dove partiva la strada che, avanzando diagonalmente, entrava nel cuore di Israele. Fu il comandante Zvika Greengold che si mise alla testa di un manipolo di uomini e, con quei pochi, sbarrò il cammino dei siriani. Lui stesso guidò un carro corazzato che cambiò per sei volte perché danneggiato. Come i guerrieri rinascimentali che, trovandosi con il cavallo abbattuto in battaglia, montavano su un altro per non lasciare il campo. Zvika restò ustionato nel 40 per cento del corpo ma non mollò il comando né perse la posizione. Per Israele, quella prima fase – dal 9 al 14 ottobre – delineò i contorni di una sconfitta che passò alla storia come «l’incubo dei carristi». Nessuna più pessimistica previsione sembrò adeguata al disastro militare con cui fare i conti. Il Paese fu attraversato dalla preoccupazione di trovarsi alla vigilia della «distruzione del terzo tempio».
Di tutt’altro segno i giorni a venire, dal 15 al 25, che registrarono la controffensiva di Tel Aviv come si fosse trattato di un’altra guerra. Gli egiziani si erano dimostrati attrezzati nell’affrontare i reparti corazzati con mezzi anticarro ma – prevedibilmente – erano vulnerabili alle prese con soldati organizzati in commando. Sul Sinai, recuperata la compattezza fra i vertici militari e rimpolpati i contingenti con i soldati israeliani di ritorno dalle licenze, fu lanciata l’operazione «Uomo intrepido». Promuovendo un radicale cambio di tattica, le fanterie s’infiltrarono nella «giuntura» fra due armate, affrontando i nemici in scontri corpo a corpo. Si aprì un varco in cui s’infilarono le forze del generale Adan che trasformò la difesa in attacco. Attraversò il Suez, entrò in terra egiziana e tagliò i rifornimenti alle divisioni nemiche chiudendole praticamente in una sacca, togliendo loro ogni possibilità di movimento. Ugualmente sul Golan: i reparti israeliani, dal 11 al 14, ripresero l’iniziativa, attraversarono la «linea rossa» del confine con la Siria e si trovarono sulla strada – spalancata – verso Damasco. Continuare ad avanzare o fermarsi? La questione agitò il governo che alla fine decise di vincere senza stravincere. Henry Kissinger, lo smaliziato segretario di Stato del presidente Richard Nixon, che aveva esortato gli israeliani a «colpire e colpire forte», a quel punto elaborò un piano di pace che non danneggiasse nessuno.
