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Lukashenko, il secondo uomo dei misteri attorno a Putin

Lukashenko, il secondo uomo dei misteri attorno a Putin

Vivo o morto, alleato o burattino, il leader bielorusso sta vivendo mesi in altalena, con buona parte della sua popolazione che non vede l’ora di allontanarsi dalla Russia

A che punto è la notte in Ucraina? E che cosa sta succedendo davvero in Russia? Se c’è qualcuno che ha qualche risposta da offrire, sicuramente questo è il leader della Bielorussia, Alexander Lukashenko. Il quale oggi vive quello che la dissidente e principale oppositrice del satrapo di Minsk, Sviatlana Tsikhanouskaya, ha definito «il suo breve momento di notorietà».

Da quando infatti il capo della Wagner Yegevny Prigozhin ha marciato su Mosca, molto è cambiato nel panorama geopolitico dell’Est Europa, e c’è chi teme (a buon diritto) che la leadership di Vladimir Putin non sia poi così solida. E di conseguenza nemmeno quella del leader bielorusso, «fratello minore» di Putin che considera la Bielorussia stessa semplicemente come un’appendice di Santa Madre Russia.

Per decifrare il prisma di luci e ombre che disorientano l’opinione pubblica sui destini di Mosca, è fondamentale conoscere il punto di vista di Lukashenko, protagonista suo malgrado degli intrighi di palazzo. Solo poche settimane fa c’erano state speculazioni sulle sue reali condizioni salute. Poi il capo di Stato è riapparso come mediatore del mancato golpe russo ed è assurto a negoziatore tra il Cremlino e Prigozhin, al quale avrebbe personalmente garantito ospitalità e il fatto che avrebbe avuto salva la pelle.

Ma i colpi di scena non finiscono qua. Giusto ieri un piccolo gruppo di giornalisti (Bbc e pochi altri) è stato invitato al Palazzo dell’Indipendenza di Minsk dallo stesso Lukashenko per una «conversazione» a tu per tu con lui. E ne è uscita una notizia che sa di beffa: «Yevgeny Prigozhin è a San Pietroburgo. O forse stamattina è volato a Mosca. O forse è da qualche altra parte. Ma non è in Bielorussia» ha dichiarato il presidente.

Come sia possibile ciò, solo Putin e Lukashenko (e il diretto interessato) possono dirlo. Secondo l’accordo «ufficiale» tra il Gruppo Wagner e il Cremlino comunicato per bocca dei portavoce dei governo di Mosca e Minsk, il capo della Wagner avrebbe dovuto trasferirsi in Bielorussia, insieme ad alcuni dei suoi combattenti. Ma oggi Lukashenko fa capire che quell’accordo non si è mai concretizzato. Almeno, non ancora.

Né Prigozhin né gli uomini della Wagner hanno mai riparato in Bielorussia, dunque, nonostante le immagini satellitari americane mostrino un campo militare in costruzione che sembra pensato proprio per ospitare i mercenari al soldo di Putin. Niet. «Questa mattina», ha dichiarato Lukashenko, «i combattenti Wagner, quelli molto seri, sono ancora nei campi in cui si sono ritirati dopo Bakhmut».

A tale affermazione, Steve Rosenberg della Bbc incalza il presidente, domandandogli se l’accordo da lui mediato è saltato. Lui però nega. «È come se ci fossero conversazioni dietro le quinte che non ci verranno rivelate» riflette Rosenberg. Che poi riporta altre risposte sibilline del leader che lasciano intendere tuttavia come, almeno sul tema dell’ammutinamento di Prigozhin, Mosca e Minsk non siano esattamente sulla stessa lunghezza d’onda.

«Lo scorso fine settimana la Tv di Stato russa ha dichiarato che il Presidente Vladimir Putin è uscito da questi eventi drammatici come un eroe» ricorda l’inviato della Bbc. «Penso che nessuno sia uscito da quella situazione come un eroe» risponde sicuro Lukashenko. «Né Prigozhin, né Putin, né Lukashenko. Non ci sono stati eroi. Se creiamo gruppi armati come questo, dobbiamo tenerli d’occhio e prestare loro seria attenzione».

Una critica inaspettate e niente affatto velata circa la gestione dei mercenari da parte di Mosca. Il che apre all’interrogativo se Lukashenko sia davvero così sottomesso al suo «fratello maggiore Vladimir», come lo chiama lui, o se invece stia brigando per smarcarsi da quella sorta di «effetto palla di neve» che rischia di trascinare i due regimi alleati verso un rovinoso finale.

Nel luglio 2020, nei giorni precedenti le elezioni presidenziali, il reparto investigativo bielorusso accusò persino il Cremlino di complotto e interferenza. Un gruppo di 32 mercenari privati – che poi si scoprirà essere membri della Wagner, come dichiarerà lo stesso capo del Kgb (sì, il servizio bielorusso si chiama ancora così) Valery Vakulchik – furono prelevati nottetempo da un hotel e detenuti con l’accusa di organizzare rivolte di massa e di incitare l’ostilità popolare. Secondo lo stesso Lukashenko, questo tentativo d’interferenza dimostrava quanto il Cremlino avesse paura di perdere il controllo sulla Bielorussia.

Lukashenko in realtà oggi appare ondivago nelle sue dichiarazioni. Difatti, quando la conversazione si sposta sulle armi nucleari – in particolare, sulle testate tattiche che la Russia ha dichiarato di voler trasferire in Bielorussia – il presidente bielorusso torna nei ranghi del fedele alleato di Mosca, e rivendica le posizioni note: «Dio non voglia che io debba mai prendere la decisione di usarle, ma non esiterò a farlo».

Quando Rosenberg gli fa notare che quelle armi non sono sue, e che un ordine di lanciarle non potrebbe che venire da Mosca, Lukashenko commenta: «In Ucraina un intero esercito sta combattendo con armi straniere, non è così? Usano armi della Nato perché hanno finito le loro. Allora perché io non posso combattere con le armi di qualcun altro?». E aggiunge che, se attaccata, la Bielorussia si unirà alla Russia in questa guerra.

Dunque, in base queste disorientanti risposte, qual è il vero Lukashenko? Quello che salva Prigozhin e critica Putin per aprirsi alla possibilità di riposizionarsi in vista di un ipotetico regime change a Mosca (ne sa qualcosa?). O quello che si definisce come alleato di ferro del Cremlino?

«Difficile credere alle parole di un dittatore» è il commento disincantato di molti analisti occidentali. E anche quello di Sviatlana Tsikhanouskaya, leader in esilio della Bielorussia democratica. Ospite di Frediano Finucci al programma Omnibus su LA7, questa mattina Tsikhanouskaya ha ricordato i metodi tipici di Lukashenko: «Il regime bielorusso si è mostrato disposto a sequestrare individui che viaggiavano sui voli di linea internazionali, a fare uso improprio delle agenzie internazionali per punire il dissenso, a usare i migranti come arma tesa alla destabilizzazione della sicurezza dell’Europa, a truccare le elezioni».

Vale qui la pena ricordare che gli Stati Uniti, l’Unione Europea e il Regno Unito non riconoscano Lukashenko quale legittimo presidente della Bielorussia. Nel 2020, quando i cittadini bielorussi si riversarono nelle strade per accusarlo di aver truccato le elezioni, le proteste furono brutalmente represse. E Tsikhanouskaya, attivista per i diritti umani che partecipava come candidata principale dell’opposizione, fu costretta a fuggire in Lituania per paura di essere arrestata e detenuta. Come, del resto, era già accaduto a suo marito e a Maria Kolesnikova, elemento di spicco dell’opposizione bielorussa, rapita e poi detenuta (del loro destino, Lukashenko dice di non saperne niente).

In proposito, Steve Rosenberg ha ricordato al presidente bielorusso che «nell’autunno del 2021 i prigionieri politici in Bielorussia erano 873, mentre ora ce ne sono 1.500». Come la mettiamo? «Nel nostro codice penale non c’è un articolo per i crimini politici» ha risposto glaciale il leader, aggiungendo: «I prigionieri non possono essere prigionieri politici, se non c’è un articolo. Come possono esserlo?».

È tutto qua il Lukashenko-pensiero. La negazione dell’ovvio per perpetuare il potere, senza che vi sia alcuna visione del futuo. Un atteggiamento tipico del vassallo nei confronti del suo sire. Vladimir Putin stesso, del resto, spiegò bene in un’intervista in epoca pandemica, come vede personalmente la questione bielorussa: il rapporto tra Lukashenko e i suoi cittadini «è una questione interna». Ma se dovesse mutare lo status quo geopolitico, allora «la Russia interverrà» sul suolo bielorusso.

Secondo fonti dell’Otsc (un’alleanza militare che coinvolge Mosca e gli stati indipendenti post sovietici), l’intelligence militare russa avrebbe un piano già pronto in caso d’incertezze o defezioni di Lukashenko: uno scenario che prevede un attentato al presidente bielorusso, o una sua imitazione fisica, con l’obiettivo di intimidirlo e spingerlo a ordinare alle sue truppe di impegnarsi direttamente nella guerra contro l’Ucraina, al fianco di Mosca. Che sia la Wagner il mezzo per eseguire questo piano? Lukashenko conosce certamente la risposta, ma non ha il potere di impedire alla Russia di continuare a usarlo come testa di legno.

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