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I 5 Stelle travolti dalle nomine d’aula si sciolgono

I 5 Stelle travolti dalle nomine d’aula si sciolgono

Le ultime giornate di lavori parlamentari illustrano bene il futuro scenario della legislatura. Sul rinnovo delle nomine delle presidenze delle commissioni parlamentari è esplosa la rivolta dei parlamentari pentastellati.


Il Movimento 5 Stelle attraversa un momento di anarchia e resa dei conti. Le cronache parlamentari riportano addirittura una raccolta firme dei deputati contro il gruppo dirigente del partito.

Una situazione del tutto inedita, poiché fino a questo momento tutto si poteva rimproverare ai reggenti del Movimento meno che non fossero in grado di tenere, se necessario con le espulsioni e con il terrore della gogna mediatica, la disciplina dei gruppi parlamentari. Anche quest’ultimo baluardo di solidità dei Cinque Stelle, quell’unità tetragona ai colpi di fortuna e ai rovesci delle maggioranze, si sta sciogliendo sotto il sole estivo.

Gran parte dei parlamentari, legati alla concezione originaria del Movimento fondata sull’antipolitica e sul rifiuto del compromesso, si rifiuta di abiurare del tutto al proprio credo fondamentale, sopratutto ora che i vertici pentastellati non possono garantire la rielezione. Il punto di fondo, e di potenziale rottura, è proprio questo: il Movimento ha sacrificato quasi tutto il suo programma politico per restare al governo con Conte, rinunciando alla purezza giacobina dei deputati-cittadini, all’euroscetticismo, alla battaglia contro il grande capitalismo, alla tutela degli interessi di partite IVA e piccoli imprenditori e, più in generale, al consenso di milioni di cittadini che avevano creduto a quella promessa di rinnovamento della classe politica. In particolare, questa gravosa rinuncia è stato fatta dal gruppo dirigente pentastellato per siglare un’alleanza con il PD, un partito al quale per anni gli stessi Cinque Stelle avevano promesso di smantellarne il sistema di potere.

Oggi i grillini si ritrovano in maggioranza con Renzi, che ha sistemato alla presidenza della Commissione Finanze della Camera l’economista pro-austerity Luigi Marattin, ovvero quanto ci sia di più distante dal pensiero economico, e finanche dai tratti antropologici, del Movimento 5 Stelle.

E’ in questo contesto che scatta la rivolta dei deputati nelle commissioni parlamentari, i quali però ottengono in cambio da Crimi, Di Maio e dai loro capigruppo un dirottamento di massa verso altre commissioni. Una repressione potenzialmente pericolosa, non solo perché regala alla Lega un paio di presidenze al Senato, ma perché rischia di innescare fughe e scissioni dal Movimento. Ciò che emerge è una frattura sempre più evidente tra il gruppo dirigente, oramai a suo agio nelle dinamiche classiche del potere e saldamente ancorato alle poltrone del governo e del sottogoverno, ed i parlamentari di secondo piano, costretti a rinunciare alla propria identità, sacrificati per siglare patti con gli alleati, lontani da una possibile rielezione.

Se si volessero usare le categorie del padre della scienza politica italiano Gaetano Mosca, si potrebbe asserire che nel Movimento 5 Stelle è saltato il rapporto di fiducia tra governati e governanti, tra la prima e la seconda classe. Uno squilibrio molto pericoloso per il governo e per il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che rischia sia di ritrovarsi senza maggioranza che, soprattutto, di dover rinunciare al progetto di rafforzamento dell’alleanza con il Partito Democratico. Un piano implicito ma reso visibile dall’ottimo rapporto politico tra Conte e Zingaretti.

E’ interessante ragionare su quello che potrà succedere nei prossimi mesi. E’ probabile, infatti, che i pentastellati di seconda fila, consapevoli del fatto che assai difficilmente potranno essere rieletti nel Movimento, inizieranno a guardare altrove. Magari verso Salvini e Meloni che, negli ultimi mesi, hanno già iniziato la propria opera di reclutamento. Il Parlamento potrebbe divenire sempre più balcanizzato e la maggioranza sempre più fragile. In questo difficoltoso scenario si pone anche la partita per il futuro del gruppo di vertice del Movimento 5 Stelle.

Per restare al governo e sopravvivere politicamente, infatti, per ministri e reggenti sarà necessario siglare una pace momentanea con i peones. Riprendere in mano quell’idea di Congresso che doveva tenersi questa primavera e che Davide Casaleggio ha rimandato a data da destinarsi.

In definitiva, in una situazione di vuoto di leadership stabilitasi nel 2019 dopo l’era di Grillo, quella del direttivo e quella di Di Maio, soltanto con il passaggio alla vecchia politica, alla definitiva strutturazione in partito, la crisi sembrerebbe arginabile. Un congresso in cui stipulare un patto esplicito per una competizione ordinata tra le diverse correnti del Movimento. Diventare cioè simile a quel Partito Democratico con cui i pentastellati sono alleati. Un’eventuale evoluzione in tal senso può assicurare un maggiore ordine nel Movimento, ma non scongiura i rischi di scissione che possono originarsi dalla perdita del consenso, dal tradimento dei vecchi ideali e dalla crescente irrilevanza territoriale. Ad ogni modo, un congresso sarebbe un passo in avanti per affrontare nodi e conflitti sotterranei da troppo tempo irrisolti e magari per cercare una nuova leadership.

Questo sempre che la crisi economica, il dirigismo vincolante dell’Unione Europea ed una potenzialmente disastrosa tornata di elezioni regionali non facciano precipitare tutto molto più velocemente di quanto si possa immaginare, rendendo insopportabile a troppi parlamentari la prosecuzione del Conte 2.

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