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E la Germania lasciò indietro l’Europa

E la Germania lasciò indietro l’Europa

Uno «scudo economico» da 200 miliardi di euro. Il cancelliere Olaf Scholz ha preferito il sostegno diretto al suo Paese a una solidarietà continentale. Con una strategia di esito incerto, è l’ennesimo colpo dato all’Unione.


Per comprendere il perché oggi la Germania – con il suo potente «scudo» anticrisi nazionale da 200 miliardi di euro – abbia compromesso il senso di solidarietà tra i Paesi dell’Unione, occorre fare un passo indietro. Quando a fine 2021 i socialdemocratici di Olaf Scholz, i Liberali di Christian Linder e i Verdi del duo Robert Habeck e Annalena Baerbock firmano il patto di coalizione per governare la Germania fino al 2025 la guerra fra la Russia e l’Ucraina non è ancora scoppiata: la tensione è alta ma l’invasione sembra una possibilità remota. In compenso il Vecchio continente ha già conosciuto l’emergenza Covid-19.
All’inizio della pandemia, la Commissione guidata da Ursula von der Leyen non riesce a cogliere la portata del fenomeno. Anzi, come scrive Francesco Guarascio nel suo saggio «La farmacia del mondo», a febbraio 2020 analisi economiche interne dei servizi Ue stimano «un impatto trascurabile sull’economia europea di quella che allora è definita l’epidemia cinese».

A fine febbraio 2020 la Commissione lancia finalmente un bando internazionale per l’approvvigionamento di dispositivi sanitari ma tanti Paesi sbagliano preferendo andare sul mercato individualmente. È l’inizio «di una concorrenza spietata tra gli stessi stati Ue e altri partner internazionali per accaparrarsi dispositivi divenuti nell’arco di pochi giorni indispensabili». Il finale della storia è risaputo: superati con fatica individualismi e incomprensioni, nel giro di qualche mese l’Ue si muove bene sul piano internazionale, mentre su quello interno vara a metà del 2020 il Next Generation Ue: un fondo comune da 750 miliardi di euro per sostenere gli Stati azzoppati dal coronavirus. Nonostante le resistenze iniziali dei soliti noti (Danimarca, Paesi Bassi, Austria e Svezia), per una volta la Germania di Angela Merkel non si oppone. Dopo le crisi della Lehman Brothers e del debito sovrano, la cancelliera ha maturato la convinzione che lasciare che l’Europa vada a gambe all’aria non conviene a Berlino. E dal 2018 il suo ministro delle Finanze non è più il falco dei conti pubblici Wolfgang Schäuble ma il socialdemocratico Olaf Scholz, oggi cancelliere…
Quanto ha imparato Scholz da quella lezione di solidarietà? Stando alle ultime decisioni del suo governo verrebbe da dire ben poco. Nell’ottavo mese di conflitto russo-ucraino la principale emergenza in Europa è l’energia. La Russia ha quasi chiuso le forniture e fra i Paesi più colpiti ci sono Italia e Germania, che hanno però reagito alla stretta in maniera molto differente. Da mesi Mario Draghi e il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani spingono per una risposta concertata dei 27 al caro-gas, mentre da mesi Scholz nicchia, bloccando l’iniziativa italiana a livello Ue. Peggio ancora, lo scorso 30 settembre il governo tedesco ha partorito l’Abwehrschirm, ossia «lo scudo di difesa economica contro la guerra d’aggressione russa». Parole che lasciano immaginare misure durissime contro Mosca. La realtà è che il pacchetto da 200 miliardi è un mix di misure per aumentare l’offerta energetica nel Paese (dal carbone all’atomo, dalle rinnovabili al gas liquefatto, il gnl) e una robusta dose di sovvenzioni a famiglie e Pmi, alle quali il governo garantirà il cosiddetto consumo di base, partendo dall’elettricità ma puntando anche al metano.

Numerosi economisti tedeschi hanno storto il naso, osservando che l’Abwehrschirm finirà per sostenere i consumi anziché contenerli, con il risultato che le bollette di Putin saranno sempre saldate mentre lo scudo finirà per alimentare ulteriormente l’inflazione spingendola al 10 per cento a settembre (proiezione dell’Ufficio federale di statistica) dal 7,45 per cento di agosto. Contro lo scudo tedesco sono insorti gli altri Stati europei che insieme all’Italia puntavano a un «price cap» continentale sul metano.
«Se si trattasse di una misura di livello europeo sugli acquisti fatti dai fornitori esterni si andrebbe nella direzione auspicata, con un abbassamento dei prezzi alla fonte» conferma a Panorama Davide Tentori, ricercatore dell’Osservatorio Geoeconomia dell’Ispi. «Questi sussidi “a valle” rischiano invece di stimolare il consumo in un momento di scarsità dell’energia». I tedeschi dunque sbagliano? «Noi non possiamo sapere se l’introduzione di un “tetto” risolverà il problema: magari la Russia reagirà bloccando del tutto il flusso di gas. Senza dimenticare che un tetto imposto anche sul gnl, potrebbe far “scappare” i fornitori di questo carburante verso altri mercati».
La soluzione proposta da Draghi, prosegue Tentori, avrebbe avuto più senso all’inizio del conflitto, quando la Russia era ancora uno dei principali fornitori di metano dell’Europa. «Oggi invece sarebbe forse più utile un fondo di garanzia sul modello di quello chiamato “Sure”, attivato un anno fa per attenuare i rischi di disoccupazione». Al di là dei tecnicismi, conclude Tentori, «è mancato da parte dei tedeschi qualsiasi tentativo di convergenza con i partner Ue tanto sul dove destinare risorse di aiuto finanziario quanto sul risparmio energetico».
Berlino ha una «coazione a ripetere» in questo comportamento egoistico. Lo si è visto in passato quando ha mantenuto per quasi un decennio un esorbitante surplus commerciale in barba alle regole comunitarie; quando ha risanato le banche nazionali, impedendo agli altri partner europei di fare lo stesso con le proprie (divieto di «bailout»); quando ha caparbiamente voluto un secondo gasdotto diretto con la Russia, il Nord Stream 2, a dispetto della contrarietà della Commissione Ue, degli Usa, dell’Ucraina e dei Paesi Ue affacciati sul Baltico.
Si deve credere che il governo Scholz abbia scelto lo scudo di difesa economica per fare un dispetto a qualcuno in Europa? «Di certo è un pacchetto infelice nella tempistica e nella sostanza» osserva a Panorama una fonte diplomatica che ben conosce il potere di Berlino e chiede l’anonimato. «Nei tempi, perché è stato varato alla vigilia di un Consiglio europeo dei ministri dell’Energia che si è proprio occupato del tema, pregiudicando così la discussione a 27; e nella sostanza perché così facendo i tedeschi hanno complicato la realizzabilità di uno strumento comune, come invece auspicato dall’Italia e da altri Stati membri». È vero poi, ricorda la fonte, che i tedeschi hanno in parte ragione quando dicono di non aver fatto nulla di diverso per esempio dagli italiani, ossia aver destinato delle risorse a raffreddare i prezzi dell’energia. «Ma noi siamo dovuti ricorrere a soluzioni nazionali proprio in mancanza di strumenti collettivi». Una pugnalata alle spalle all’Europa, dunque? «Lo scudo tedesco non aiuta un approccio condiviso. E in molti, non solo gli economisti, cominciano a rendersene conto anche in Germania». L’intervento, insomma, sarebbe uno strumento «affrettato e non ponderato». È d’altronde vero che l’Abwehrschirm è stato adottato dopo molti mal di pancia della «maggioranza semaforo» che sostiene Scholz, con Liberali e Verdi ai poli opposti su tasse e nucleare mentre la stessa Spd del cancelliere la pensa in modo diverso al suo interno, a cominciare dal rapporto con la Russia.
Vista dall’Italia questa litigiosità dei partiti lascia il tempo che trova, ma per la Germania si tratta di un fatto del tutto inedito; d‘altra parte questo è il primo governo con tre partiti molto diversi, con l’aggravante di una guerra quasi alle porte di casa che ha sconvolto la coalizione.
Perché i Verdi, per esempio, non intendevano tornare nella stanza dei bottoni per riaprire gli impianti a carbone né tantomeno prolungare le vita delle centrali atomiche. «Né ha giovato» riprende la nostra fonte «la tradizionale scarsa capacità di comunicazione dei tedeschi, con Scholz che è molto meno empatico di Angela Merkel».
Incassate le critiche di mezza Europa, Berlino si è finalmente ricordata che comunicare è importante: così ha fatto circolare tabelle in cui dimostra di avere speso meno sul Pil per il caro-energia di Madrid o Roma e segnalando che per anni l’Europa ha accusato la Germania di spendere poco nel mercato interno (ossia di puntare solo alle esportazioni), per cui nuovi voci di spesa dovrebbero essere bene accolte. Tanto più, ha segnalato ancora la fonte, che l’Abwehrschirm non precluderebbe misure comunitarie.Insomma, più che a una Germania definitivamente antieuropea ci troveremmo davanti a un Paese che si è scoperto litigioso e indeciso; e culturalmente meno preparato a gestire le emergenze rispetto a noi italiani che «vinciamo la partita solo dopo che perdiamo due a zero».

La Commissione ha seguito la Germania. Per mesi la tedesca Ursula von der Leyen ha frenato sul «tetto» per il gas. «La sua reazione iniziale alle parole di Thierry Breton e Paolo Gentiloni è stata deludente». Quando i due commissari (il francese al Mercato interno e l’italiano all’Economia) hanno criticato l’approccio di Berlino, auspicando misure coordinate a livello comunitario, la numero uno dell‘esecutivo comunitario si è smarcata, definendo quella dei suoi commissari un’iniziativa personale. Una leder «troppo condizionata dall’agenda del suo Paese d’origine», conclude la nostra fonte. Nelle ore in cui la Germania apriva finalmente a uno strumento comune, anche Von der Leyen correggeva la rotta facendo propria la proposta Breton-Gentiloni sul «price cap». Le trattative sono aperte: resta adesso da vedere se prevarrà l’interesse nazionale o la solidarietà continentale.

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