La visita del vicepresidente americano J.D. Vance in Israele si è conclusa con un messaggio diretto a Gerusalemme: gli Stati Uniti non appoggeranno alcuna annessione della Cisgiordania. «La politica del presidente Donald Trump è chiara: Israele non deve annettere la Cisgiordania», ha dichiarato Vance, parlando di «un voto parlamentare inutile e controproducente». Il vicepresidente ha definito la decisione della Knesset «una mossa politicamente avventata» e ha precisato che Washington «non intende restare in silenzio di fronte a scelte unilaterali».
Tensione tra Washington e Gerusalemme
Poco dopo, il premier Benjamin Netanyahu ha risposto sostenendo che «la mozione sull’annessione è stata una provocazione dell’opposizione, orchestrata proprio per creare tensione durante la visita americana». Netanyahu ha spiegato che «le proposte non provenivano dai partiti di governo» e che «solo un deputato isolato del Likud le ha sostenute».
Nel frattempo, il segretario di Stato Marco Rubio è giunto a Tel Aviv per monitorare l’attuazione del piano di pace elaborato da Trump, volto a stabilizzare progressivamente la regione e a creare un nuovo equilibrio politico tra Cisgiordania e Gaza. In un’intervista concessa al Time, Trump ha confermato di aver accettato la proposta di presiedere il futuro «Consiglio della Pace», l’organismo internazionale incaricato di guidare la ricostruzione e la transizione di Gaza. «Non era nei miei piani, ma lo farò», ha dichiarato, aggiungendo di essere convinto che l’Arabia Saudita firmerà un accordo di normalizzazione con Israele entro la fine dell’anno: «Riad è pronta a compiere questo passo, ho grande rispetto per il re e credo che sarà la prima a muoversi».
Verso una nuova architettura regionale
Secondo il presidente americano, i principali ostacoli alla normalizzazione «sono venuti meno: non c’è più la minaccia di Gaza e l’Iran non rappresenta un pericolo imminente». Trump ha affermato che «il Medio Oriente sta entrando in una fase di equilibrio e che gli Accordi di Abramo si estenderanno in tempi rapidi». Sul piano operativo, le Forze di difesa israeliane stanno valutando una riduzione della presenza militare in Cisgiordania. Come riportato da Ynet, la misura è ancora oggetto di analisi ma ha già sollevato proteste. Il parlamentare Zvi Sukkot, del Sionismo religioso, ha inviato una lettera al capo di Stato maggiore Eyal Zamir denunciando che «un taglio del 30% del personale militare potrebbe lasciare intere aree vulnerabili».
Il nodo Tony Blair e l’Onu esclusa da Gaza
Nel frattempo, Egitto, Turchia e Qatar avrebbero espresso la loro opposizione alla possibile nomina dell’ex premier britannico Tony Blair a capo del nuovo «Consiglio di Pace». La notizia, diffusa dal quotidiano libanese Al-Akhbar, riferisce che la questione è stata discussa in un vertice al Cairo dedicato alla seconda fase del cessate il fuoco. Un alto funzionario israeliano, citato dall’emittente Kan, ha inoltre dichiarato che «l’Unrwa non tornerà a operare nella Striscia di Gaza», nonostante la sentenza della Corte internazionale di giustizia che obbliga Israele a consentire la distribuzione degli aiuti. «Le agenzie dell’Onu si sono lasciate influenzare da Hamas», ha affermato la fonte, aggiungendo che la gestione dell’assistenza «sarà affidata a strutture più controllate e trasparenti».
Il vuoto palestinese e il ritorno del “mito” Barghouti
In questo contesto politico e diplomatico, gli Stati Uniti cercano di contenere le spinte più radicali di Israele e di disegnare una nuova architettura regionale. Ma sul fronte palestinese continua a pesare il vuoto di leadership. È in questa assenza che riemerge, ancora una volta, la figura di Marwan Barghouti, l’uomo che per molti rappresenta il volto della resistenza e per altri l’icona distorta di un conflitto senza via d’uscita.
Da oltre vent’anni, Barghouti è detenuto in Israele. Condannato nel 2004 per cinque omicidi e per aver diretto attacchi contro civili durante la Seconda Intifada, l’ex capo delle Brigate al-Aqsa – braccio armato di Fatah – è diventato il simbolo di una causa che mescola martirio e fallimento politico. Le indagini israeliane dimostrarono che Barghouti autorizzava e finanziava operazioni terroristiche. Non è un prigioniero politico, ma un dirigente che scelse la violenza come strumento. Durante l’Intifada, sostenne apertamente la lotta armata come «resistenza legittima» e non prese mai le distanze dagli attentati suicidi. Le sue parole e le sue azioni contribuirono a trascinare il conflitto in una spirale di sangue, rendendo impossibile ogni dialogo.
Un simbolo che blocca il futuro
Nonostante ciò, la sua immagine rimane un punto di riferimento per chi, nella società palestinese, non trova alternative credibili. All’interno di Fatah, Barghouti incarna la corrente più dura e ostile al presidente Mahmoud Abbas; per Hamas, rappresenta un’icona utile, un simbolo da agitare contro l’Autorità Palestinese. Anche l’Occidente, spesso incline a romanticizzare la causa palestinese, lo ha trasformato in una sorta di «Mandela arabo», ignorando però che Mandela non ordinò mai attentati contro civili.
Barghouti non ha mai mostrato segni di autocritica né proposto un vero progetto politico. I suoi messaggi dal carcere ripetono gli stessi slogan di sempre, accusando Israele di «apartheid» e invocando la «resistenza fino alla vittoria». Nessuna parola di riconciliazione, nessuna visione di convivenza. Un leader autentico sa trasformare la sconfitta in futuro, educare alla speranza. Barghouti, invece, rimane prigioniero del suo stesso mito: un simbolo statico, utile a colmare un vuoto ma incapace di generare una prospettiva. Finché la sua immagine continuerà a sostituire la politica, la Palestina resterà prigioniera non solo dell’occupazione israeliana, ma anche delle proprie illusioni.
