- L’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi non ha mezze misure quando parla di Cina e dell’origine del virus. Bergamasco doc, ha provato nella sua città la devastazione del contagio e ora chiede a gran voce una commissione d’inchiesta internazionale su Covid-19. Presidente del Comitato globale per lo Stato di diritto Marco Pannella, membro di think tank e fondazioni, è severo con il governo e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, per l’accondiscendenza nei confronti della Cina. E lancia l’allarme sulle infiltrazioni di Pechino in università, centri di ricerca e nevralgici del nostro Paese.
- Al di là delle accuse di Donald Trump sul coronavirus frutto di manipolazione, il laboratorio nella città da cui è partita la pandemia custodisce tanti, troppi misteri. Come gli scienziati che lanciano allarmi sulle ricerche fatte nel centro e poi spariscono. E su tutto il regime esercita la sua «disinformazione».
Cosa pensa della proposta di diverse nazioni, a cominciare dagli Stati Uniti, di una commissione d’inchiesta internazionale sul virus che finora ha provocato oltre 4 milioni di contagi e 300.000 morti?
«È un dovere per tutta la comunità internazionale, una responsabilità per i governi degli Stati colpiti nei confronti dei loro cittadini e per lo stesso governo cinese. Se Pechino continuasse a contrastarla, non farebbe che scavare la fossa in cui il Partito comunista si è messo censurando, negando, intimidendo per mesi tutti quelli che in quel Paese hanno lottato e lottano per ottenere chiarezza e giustizia. Il risultato negativo che la Cina ha sinora ottenuto è ancora peggiore di quello subìto dal Pcus (il Partito comunista sovietico, ndr) al tempo del disastro nucleare di Chernobyl».
Il governo cinese sembra accettare un’inchiesta guidata dall’Organizzazione mondiale della sanità. Potrebbe essere
un compromesso?
«Il direttore generale etiope dell’Oms, Tedros Adhanom, è assai legato a Pechino. Piuttosto la commissione dovrebbe essere un’iniziativa dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, trattandosi di questione di salute globale e di emergenza economica e umanitaria».
La Casa Bianca sospetta che il virus sia uscito dal famoso laboratorio di Wuhan. Gli americani hanno in mano qualcosa di concreto?
«Nessuno ha fornito all’opinione pubblica prove inconfutabili sull’uscita di questo agente patogeno dall’Istituto di virologia di Wuhan. Ma nemmeno Pechino ha mai dimostrato la provenienza del virus dal mercato di animali selvatici che è ubicato vicinissimo al laboratorio P4 di massima sicurezza, o da altri luoghi nella regione dell’Hubei, colpita dai primi focolai. Anzi, ha continuato a mischiare le carte. Le responsabilità politiche, legali ed economiche della Cina sono dirette, gravi e irrefutabili. Quale che sia la porta di uscita della pandemia – laboratori o mercati – della metropoli cinese, Pechino è responsabile
perché ha ostacolato qualsiasi forma di collaborazione scientifica nell’individuare le radici del virus. In secondo luogo, le responsabilità del regime comunista emergono chiarissime dall’analisi e dalle incongruenze di una narrativa imposta dal presidente a vita da Xi Jinping e propagandata ossessivamente dalla nomenclatura del Partito comunista cinese, inclusi i suoi aggressivi e intolleranti ambasciatori nel mondo».
La Francia sa qualcosa di più sull’origine del virus?
«Il laboratorio di Wuhan, tecnologicamente avanzatissimo, è stato progettato e finanziato dalla Francia in un quadro di cooperazione scientifica iniziata nel 2003 per combattere la Sars. Una collaborazione finita poi male per le costanti preclusioni cinesi a qualsiasi trasparenza, condivisione delle ricerche e delle misure di sicurezza. L’Istituto di virologia di Wuhan, nel quale è inserito il laboratorio P4 di massima sicurezza abilitato a trattare i virus più pericolosi, è un’istituzione fondata agli albori del regime comunista, nel 1956. I suoi scienziati sono noti soprattutto per avere creato versioni ibride del coronavirus proveniente dai pipistrelli che possono infettare le cellule umane».
All’inizio la Cina ha cercato di nascondere il contagio?
«Le autorità cinesi hanno totalmente disatteso i trattati sul Global health vincolanti e ratificati da Pechino. In particolare quelli adottati dopo l’altra grave epidemia, la Sars, scoppiata nel 2002 in Cina. Accordi che obbligano a notifiche rapidissime – entro 24 ore – di qualsiasi avvisaglia di contagio. Pechino ci ha messo almeno sei settimane. È la cronologia documentata degli eventi a inchiodarla: la prima persona infettata nell’Hubei viene registrata il 17 novembre 2019; The Lancet, autorevole rivista scientifica, riferisce del caso il 1° dicembre; il medico Li Wenliang, che tenta di lanciare l’allarme, viene arrestato e minacciato dalla polizia il 30 dicembre. E solo l’11 marzo Pechino lascia che l’Oms dichiari la pandemia. Ma ancora una volta in grave ritardo
a causa delle pressioni sul direttore generale».
Come mai in Italia si parla poco dell’indagine internazionale sul virus?
«Sono ormai evidenti i danni che il Paese subisce nei suoi rapporti internazionali – non solo in Europa e in America, ma anche in Giappone, Australia, Canada, nel Sud Est asiatico, in Africa, cercando di non impegnarsi nella pressante richiesta di una Commissione internazionale d’inchiesta. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio – per evitare di chiedere una commissione internazionale di indagine – ha solo detto che l’Italia chiede “trasparenza”».
Bisognerebbe richiedere i danni alla Cina, come stanno facendo in altri Paesi e come ipotizza la Regione Lombardia?
«La Cina non vuole in alcun modo collaborare nella ricerca internazionale di un vaccino e ancora meno a individuare la vera origine del virus. Ricorsi alle giurisdizioni internazionali come Corte internazionale di giustizia, Wto (Organizzazione mondiale
del commercio, ndr), Corte permanente di arbitrato sono non soltanto possibili, ma hanno solide basi giuridiche. È vero che si deve superare il principio della sovranità e immunità degli Stati, ma è avvenuto non poche volte negli ultimi 70 anni di storia. Infine, c’è la via altrettanto concreta dei ricorsi alla giurisdizione nazionale».
L’Italia dovrebbe rivedere il Memorandum sulla Nuova via della seta?
«Il Memorandum va immediatamente annullato. È una iattura per la sovranità e la tutela dell’interesse nazionale. Non ha portato alcun vantaggio al nostro export rispetto a un’ulteriore crescita di quello cinese verso l’Italia. Ma ancora più grave, tale «intesa» ha creato una crescente dipendenza politica, economica e strategica di Roma da Pechino. Le reti dell’informazione pubblica devono ormai sottostare alla propaganda del Partito comunista cinese, diventandone il costante megafono. I rapporti scientifici fanno entrare i ricercatori cinesi – entità legate alle loro Forze armate – nei nostri sancta sanctorum, come l’Agenzia spaziale italiana, il Centro di cooperazione internazionale per la sicurezza informatica e i maggiori centri di ricerca».
Vuole dire che siamo infiltrati da emissari di Pechino?
«Da molto tempo, e in misura ancora più accentuata dall’inizio degli anni 2000 con il suo ingresso nel Wto e l’accelerarsi della globalizzazione, la Cina ha impegnato grandi risorse finanziarie, politiche e diplomatiche per costruire reti di penetrazione
nei paesi occidentali considerati “bersagli” per acquisire tecnologie, mercati e influenza globale. Reti che contano su personalità del mondo politico, scientifico ed economico attratte da Pechino con incarichi nelle sue università e aziende. Esistono “mappature” tracciate da centri di ricerca internazionali, con nomi, cognomi e attività delle personalità italiane che lavorano per la Cina e ne sostengono attivamente gli obiettivi di espansione di Pechino nel nostro Paese e in Europa. Ne risulta un’immagine inquietante. Un gotha di personaggi in rapporto col regime cinese, che lavora contro l’Italia».
Nel pozzo dei segreti di Wuhan
Un cubo di quattro piani, con un cilindro appoggiato di lato. Un edificio grigio e nero, con molto acciaio e poco vetro. È il Wuhan institute of virology, il «pozzo dei misteri» del Covid-19: il laboratorio dove il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, accusa la Cina di aver fabbricato il virus che ha ucciso 300 mila persone in 210 Paesi, devastando l’economia occidentale peggio di quanto fece la crisi del 1929.
Dalla sua, Trump ha elementi suggestivi. Il laboratorio si trova nel cuore di Wuhan, 11 milioni di abitanti al centro della Repubblica popolare, la città dove effettivamente l’epidemia è cominciata. E sorge a meno di quattro chilometri dal «wet market», il mercato coperto sull’altra riva del Fiume Azzurro, dove si vendono tutti gli strani animali di cui i cinesi amano cibarsi, scorpioni, cani, e forse anche i pipistrelli, che nel 2002-2003 erano stati accusati di aver trasmesso la Sars all’uomo. All’inizio della storia, proprio il «wet market», così vicino al laboratorio, era stato additato dal governo cinese come certo focolaio iniziale del morbo. Poi s’è appurato che malati e morti non avevano nulla a che fare con quel posto.
Il sospetto sul Wuhan institute of virology, insomma, è più che legittimo. Il regime di Pechino e il presidente Xi Jinping potrebbe aver cinicamente deciso di sacrificare qualche migliaio di abitanti, a Wuhan e dintorni, per dare al mondo l’impressione di essere stati colpiti da un contagio naturale, poi domato grazie ai potenti mezzi di controllo tipici di una dittatura. Potrebbe così avere dissimulato la vera origine di un virus che nel resto del mondo ha scatenato una disastrosa pandemia, e ha permesso alla Cina di vincere una Terza guerra mondiale senza sparare un colpo. Il virus, in effetti, ha azzoppato Trump, che ora rischia di non essere rieletto in novembre; ha annichilito le sue guerre commerciali, fin qui piuttosto efficaci; ha bloccato la sua strategia per contenere l’espansione globale del Dragone.
Anche l’Europa è stremata, pronta a essere conquistata dagli aiuti sanitari ed economici di Pechino. Tra l’altro la Cina, con l’India, è il solo Paese al mondo che nel 2020 vedrà crescere il suo Prodotto interno lordo. Il governo di Xi Jinping, ovviamente, nega tutto. Ribatte chiedendo alla Casa Bianca di tirar fuori le prove delle accuse, e sostiene al contrario siano stati gli americani a importare il Covid-19 a Wuhan, diffondendolo con i loro atleti che in città partecipavano ai Giochi militari di metà ottobre.
Non offre certezze nemmeno la scienza, divisa sull’origine del virus. Luc Montagnier, nel 2008 premio Nobel per le sue scoperte sull’Hiv, il virus dell’Aids, s’è detto certo che il Covid-19 sia «un virus di pipistrello, in parte manipolato geneticamente, con l’aggiunta di piccole sequenze di Hiv umano». Senza mai citare Wuhan, Montagnier ha ipotizzato che «un laboratorio stesse lavorando a un vaccino contro l’Hiv», che «potrebbe essere uscito per sbaglio». È stato aggredito da centinaia di virologi, che in tutto il mondo hanno contestato la sua tesi. Ma la prestigiosa rivista Nature, divenuta il loro vessillo perché sostiene «l’origine naturale del virus», nel febbraio 2017 segnalava proprio i rischi del laboratorio di Wuhan, allora ancora non in piena attività, sottolineando che stava «lavorando con gli agenti patogeni più pericolosi del mondo», e che «spesso il virus della Sars è fuggito da strutture di contenimento cinesi di alto livello».
La verità? Sarà difficile arrivarci. Anche se mai partirà l’improbabile commissione d’indagine internazionale, chiesta da tanti governi, di una sola cosa si può esser certi: se c’era una prova che nella pandemia il laboratorio di Wuhan abbia avuto anche solo mezza responsabilità, intenzionale o involontaria, i cinesi l’hanno distrutta.
Allo stesso modo, chi poteva testimoniarlo è stato efficacemente convinto a non parlare, oppure non lo farà mai più. Potrebbe essere il caso di uno dei capi del laboratorio: la virologa Shi Zhengli, 16 dei suoi 55 anni trascorsi a studiare i pipistrelli vettori di coronavirus, e per questo ribattezzata Bat-woman. In un’intervista pubblicata l’11 marzo dalla rivista Scientific American, Shi si diceva scettica sull’origine naturale del Covid a Wuhan. Aveva ricordato che i pipistrelli «con il muso a ferro di cavallo», propagatori di virus, vivono nella Cina meridionale subtropicale, e di certo non sono in vendita al «wet market» della città. Soprattutto, Shi s’era permessa di ipotizzare che il Covid fosse sfuggito proprio dal suo laboratorio. Poi, in una sincopata serie d’interviste, la ricercatrice s’era sbracciata a smentire, negare, giurare il contrario. Infine è scomparsa. Nessuno sa più dove sia.
Lo stesso laboratorio di Wuhan, obiettivamente, ha una storia strana. Parte nel 1956, ma ha la forma attuale grazie a lavori di potenziamento terminati a fine 2017 grazie a una convenzione firmata 13 anni prima con il governo francese. E gli scienziati cinesi che ci lavorano sono stati formati nei laboratori di Lione, ma Pechino ha sempre negato ai 50 ricercatori francesi previsti dagli accordi di mettere piede a Wuhan. Perché? Mistero.
Dany Shoham, biologo israeliano ed ex ufficiale del Mossad, esperto d’armi batteriologiche, sospetta che «alcuni settori del laboratorio di Wuhan» da anni covino programmi segreti su armi biologiche. Ma non pensa a una fuoriuscita volontaria: crede che il nuovo coronavirus sia «sfuggito al controllo e abbia infettato uno dei virologi, per poi propagarsi in città».
Curioso: nel marzo 2018 un rischio di quel tipo era stato segnalato dall’ambasciata americana a Pechino. Che aveva inviato a Washington un allarme sulle condizioni di sicurezza nel nuovo edificio del Wuhan institute of virology, appena inaugurato. Il console statunitense Jamison Fouss e un consigliere scientifico avevano visitato il laboratorio e annotavano, con terrore, che i tecnici cinesi «non operano in sicurezza» e «problemi nella gestione e nelle protezioni».
Aggiungevano il timore che «le ricerche sul legame coronavirus-pipistrelli e la possibile trasmissione verso gli esseri umani», nel laboratorio di Wuhan, potessero comportare «il rischio di una nuova epidemia». Propaganda o preveggenza? Chissà. Intanto il pozzo dei misteri resta chiuso. Ermeticamente.
