Dong Jingwei, l’ex capo del controspionaggio di Pechino che si è consegnato agli Stati Uniti, ha portato con sé informazioni cruciali. Tra cui la verità sulle origini del Covid-19.
il colpo del secolo per l’intelligence statunitense. Una spia che viene reclutata con successo e passa al nemico, rivelando segreti di Stato così importanti che gli americani li consideravano alla stregua di un sogno proibito. Non si era mai verificato un fatto simile, almeno non in questa misura. Al punto che a Washington D.C. il riserbo è pari alla soddisfazione: «Non confermiamo e non smentiamo la presenza di Dong Jingwei e dei suoi familiari negli Stati Uniti».
Già, perché quell’agente segreto che ha «defezionato» – cioè ha disertato dalla propria organizzazione politica e si è consegnato a una potenza straniera – è nientemeno che l’ex capo del controspionaggio di Pechino e viceministro in forze al ministero della Sicurezza di Stato cinese. Dong Jingwei avrebbe portato in dote agli americani una quantità di dati classificati impressionante (calcolati in decine di terabyte), che si starebbero rivelando di prima importanza per conoscere i più reconditi segreti della Repubblica popolare cinese.
Non solo una copia dell’hard disk del computer di Hunter Biden, il figlio del presidente al centro di uno scandalo che Donald Trump aveva tentato di cavalcare per vincere le elezioni contro suo padre. Ma soprattutto la verità su quanto accaduto davvero al laboratorio di Wuhan, al centro della controversia sulle origini della pandemia da coronavirus nel mondo. E la realtà è così compromettente per Pechino che le conseguenze potrebbero essere devastanti per la Cina.
Non si tratta di una pedina minore o di un millantantore. Dong Jingwei è un alto funzionario cinese, posizionato in un ruolo chiave e considerato molto vicino allo stesso presidente Xi Jinping. Oltretutto seduto sulla scrivania dell’ufficio strategico, dove negli ultimi vent’anni sono passati tutti i dossier più scottanti della Repubblica popolare: è il cosiddetto Guoanbu, la polizia segreta cinese le cui funzioni assommano in pratica quelle che negli Stati Uniti svolgono Fbi, Cia e Nsa messe insieme.
Il Guoanbu, infatti, si occupa non soltanto di contro-intelligence, ma anche d’intelligence straniera, di sicurezza politica della Cina e del monitoraggio dei dissidenti. Vanta uno dei più avanzati e agguerriti reparti di cyber intelligence del pianeta, il cui compito è anche quello di monitorare costantemente gli uomini d’affari e le dinamiche industriali straniere, nell’illusoria convinzione di poter controllare tutto e tutti.
Qualcosa, però, è andato storto. L’elemento umano, ancora una volta, ha fatto la differenza e ha mandato in tilt ogni certezza del Grande Fratello cinese. Si dà il caso che Dong Jingwei abbia una figlia che studia in California, il cui nome è Dong Yang. Secondo alcune fonti, lei sarebbe all’origine di tutto: era sposata con Jiang Fan, manager del colosso dell’e-commerce Alibaba (l’eBay d’Oriente) nonché presidente di TMall (l’Amazon cinese). Il quale però sarebbe stato recentemente costretto a divorziare da lei, perché accusato d’infedeltà e di un presunto flirt con una dipendente. Cosa che ne ha comportato la rimozione coatta dal colosso commerciale, ufficialmente per «difendere la reputazione dell’azienda».
Tuttavia, quella rimozione nasconderebbe un’altra verità: la dissennata campagna del presidente Xi Jinping per sottomettere ogni forma di dissenso al suo strapotere. Da cui poi sarebbe discesa la decisione di Dong Jingwei e della figlia di dire «basta a questo clima del terrore». Jiang Fan è solo l’ultima vittima di una serie sistematica di epurazioni intraprese e orchestrate dallo stesso Xi Jinping contro quei sempre più numerosi manager cinesi considerati «troppo occidentalizzati».
Il presidente viene descritto come un leader ossessionato dal sospetto d’infedeltà verso il regime da parte di chiunque: negli ultimi anni, in particolare, ha fatto rimuovere molti leader della nomenclatura a lui vicini che potevano fargli ombra o che lui sospettava di infedeltà alla sua persona. A cominciare dal più famoso cinese nel mondo, il magnate dell’e-commerce Jack Ma, proprietario di Alibaba.
Come noto, il miliardario era scomparso per tre lunghi mesi a cavallo tra il 2020 e il 2021, dopo che aveva osato criticare le agenzie regolatorie cinesi e le banche statali: ossia quelle stesse istituzioni che vogliono mettere la mordacchia ai giganti tecnologici del Paese, considerati dall’organo centrale del partito comunista come la più seria minaccia alla stabilità politica e finanziaria del partito unico, nonché alla stessa ideologia comunista.
Oltre alla vicenda familiare della figlia, però, Dong Jingwei avrebbe anche avuto un rimorso di coscienza personale: in possesso di informazioni che indicherebbero il Sars-Cov-2 come un prodotto di laboratorio e l’origine della pandemia dovuta all’effettiva fuga del virus stesso dal centro di Wuhan, avrebbe deciso di consegnare quelle informazioni al mondo. Così, dopo aver riflettuto a lungo e aver ottenuto la garanzia della protezione degli Stati Uniti per la propria famiglia, avrebbe organizzato nei dettagli una visita all’apparenza innocua nell’università californiana dove studia la figlia.
A metà febbraio di quest’anno, dopo uno scalo strategico a Hong Kong, sarebbe poi atterrato a Los Angeles, dove c’erano ad aspettarlo alcuni funzionari della Dia, la principale agenzia militare d’intelligence che si occupa di questioni estere e della gestione delle informazioni. Dong si sarebbe accordato per consegnare loro il materiale sensibile e avrebbe atteso qualche settimana prima di scomparire, per non destare sospetti e dare il tempo sufficiente all’intelligence americana di studiare i file che la spia aveva portato in dote.
Quei documenti si sarebbero rivelati così esplosivi da aver convinto prima lo stesso presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, a rompere gli indugi nel riaprire l’inchiesta sull’origine da laboratorio del Covid-19; e persino il compassato immunologo Anthony Fauci, consigliere capo del presidente nella Task force anti-coronarivus, a sbilanciarsi nel sostenere che, in effetti, «non è da escludere che l’origine del Sars-Cov-2 sia passata dal laboratorio».
A giugno inoltrato, difatti, sono cominciate a filtrare alcune sue dichiarazioni sibilline: «L’interrogativo è estremamente legittimo» ha sostenuto Fauci, aggiungendo la necessità che «la Cina dia le cartelle cliniche dei tre impiegati del Wuhan Institute of Virology che si sono ammalati nel 2019, affinché si possa capire perché si sono ammalati e come». A seguire, è arrivato lo scoop giornalistico di Sky Australia, entrata in possesso di un video che mostra esperimenti sui pipistrelli vivi tenuti in gabbia nell’Istituto di Wuhan, e che contraddice in toto la versione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (il vertice delll’Oms è molto vicino al regime di Pechino), che aveva bollato l’ipotesi come «cospirazionismo» sostenendo che non vi erano mai stati simili accadimenti in quell’istituto.
Insomma, un castello di carte che cade. Una montatura cinese che non regge più alle prove del tempo. Un colpo severo all’autostima e alla credibilità di Pechino nel mondo. E tutto questo grazie, ancora una volta, al fattore umano. A un uomo colto da rimorso, le cui rivelazioni potrebbero segnare una pagina epocale nella storia recente delle nostre relazioni internazionali.
Una vicenda che, per il potenziale informativo che reca con sé, si può accostare a quella di Eli Cohen, l’uomo del Mossad israeliano che s’infiltrò nei vertici della Siria fornendo informazioni così preziose che consentirono a Gerusalemme di vincere la Guerra dei Sei Giorni.
O come Vasili Mitrokhin, l’agente del Kgb che defezionò al crollo dell’Urss, consegnando all’MI6 britannico archivi e dossier scomodi di Mosca. O ancora, come l’ex tecnico Cia Edward Snowden, fuggito in Russia dopo aver rivelato pubblicamente i programmi top-secret di sorveglianza di massa del governo statunitense e britannico. Xi Jinping per ora tace, Joe Biden gongola e medita le ricadute geopolitiche di questa possibile rivelazione. Anche se, a dire il vero, dovrebbe dare atto che il primo ad averci visto chiaro su Wuhan era stato il tanto vituperato ex presidente Donald Trump.
