Un Paese piegato da 10 anni di guerra civile, che ha fatto 400.000 vittime e lasciato il 90% della popolazione in povertà. Eppure tra corruzione diffusa, fiammate terroristiche, traffici illegali e repressione degli oppositori, il regime di Bashar al-Assad resta, per l’Occidente, l’interlocutore obbligato.
A Damasco riverbera ancora la magnificenza imperiale delle dinastie omayyadi. La Grande moschea spicca al centro della città vecchia, rivestita di marmi e mosaici, conchiglie e madreperle su fondo d’oro. Scintillante. È meta di pellegrini da tutta la regione, sunniti e sciiti, perfino cristiani, in visita al mausoleo del Saladino, e al Mashad al-Hussein, dove la tradizione vuole sia custodita la testa di Hussein, figlio di Ali e nipote del profeta Maometto. E anche al cenotafio di San Giovanni Battista. Ma lo splendore della prima capitale di un impero islamico impallidisce appena un chilometro più in là, dove cominciano i quartieri periferici distrutti dalla terribile guerra civile, cominciata giusto 10 anni fa.
La Siria si trova nel mezzo della crisi economica più grave della sua storia, senza più carburante, elettricità, neppure farina per il pane. Attacchi a civili, infrastrutture, mercati, ospedali e scuole hanno causato oltre 400.000 vittime. Metà della popolazione è fuggita dalle proprie case, sfollata all’interno o rifugiata nei Paesi confinanti e in Europa, con allarmi terroristici per la sicurezza del Vecchio Continente. Solo in Italia nel 2020 sono registrati come residenti 6.356 siriani.
Anche adesso che la fase acuta del conflitto è finita, con la distruzione dell’Isis, nessuno vuole tornare in uno Stato in miseria. Secondo la Banca Mondiale, l’economia si è ridotta di oltre il 60% dal 2010. Anche la lira siriana è crollata. Prima della guerra, 50 lire erano scambiate per un dollaro. Ora ce ne vogliono oltre 3.000. Il governo di Bashar al-Assad può permettersi di pagare i dipendenti pubblici solo 15 dollari al mese e le persone passano ore in coda per la benzina e per acquistare il pane.
«Il 90% della popolazione vive ormai nella povertà, anche se la situazione economica del Paese non è uniforme» dice a Panorama Karam Shaar, analista del Middle East Institute. «L’area attorno a Damasco è controllata dal governo e anche da Russia e Iran, vi risiede la maggior parte della forza lavoro, poi c’è il Nord-est ricco di petrolio e cereali dove forte è la presenza dei curdi e degli americani, e il Nord-ovest in mano a Hayat Tahrir al-Sham, il ramo siriano di Al Qaeda, che monopolizza il greggio: qui pure la Turchia ha grande influenza».
L’altro lascito della guerra è infatti la balcanizzazione del Paese. «I terroristi prosperano in aree del mondo in cui lo Stato centrale è troppo debole per contenerli» precisa Arshin Adib-Moghaddam professore alla Scuola di studi oriental della University of London. «Ma lo sfacelo dello Stato siriano, un tempo molto forte e centralizzato, dipende anche da corruzione, restrizioni legate al Covid, sanzioni americane e il crollo delle banche libanesi, dove i ricchi siriani avevanosdepositato i loro soldi».
Nella capitale mendicanti e senzatetto vagano per le strade delle aree più ricche. Nel frattempo, lo stile di vita dell’élite siriana sembra quello di sempre all’interno della «gabbia dorata» del quartiere di Yafour, presso l’autostrada Damasco-Beirut, mentre la classe media istruita sta tagliando i generi di prima necessità.
Come racconta Samaan Daoud, 51 anni e due figli, che lavora a Radio Maria in lingua araba a Roma: «Io sono fuggito dalla Siria perché mio figlio nel 2015 quando ha compiuto 18 anni mi ha chiesto: “Papà ma ora contro chi dovrei sparare?”. C’è anche da dire che le sanzioni americane hanno colpito solo la gente comune: se manca la corrente non è al palazzo presidenziale, i ricchi non hanno difficoltà a procurarsi medicinali e a curarsi. Se volessi mandare soldi in Siria dovrei fargli fare prima il giro del mondo e pagare 200 euro di commissione. Non ne vale la pena».
In Siria un chilo di carne costa circa un quarto dello stipendio medio di un dipendente pubblico. Riso, zucchero e carburante sono razionati. I genitori non riescono a mandare i bambini a scuola e le ragazze che l’abbandonano sono vittime di matrimoni precoci. «In molte famiglie in cui lavorano in due si guadagnano circa due euro al giorno» racconta padre Amer Kassar, parroco a Damasco nella chiesa siro-cattolica Madonna di Fatima. «Per il riscaldamento il governo garantisce solo 50 litri di mazut (diesel, ndr) per tutto l’inverno mentre ce ne vorrebbero almeno 400. Spesso mi capita di entrare nelle case della gente e non c’è nulla da mangiare. Le famiglie ormai vivono alla giornata».
Anche per i commercianti è difficile portare il grano al mercato. I camion devono attraversare decine di posti di blocco sulla strada per Damasco. La Quarta divisione corazzata, un reparto d’élite dell’esercito siriano, guidata dal fratello di Assad, Maher, e composta principalmente da ufficiali di fede alawita come il raiss, pretende 3.000 dollari a carico.
La Siria però è un Paese complesso. In questo momento, per esempio, è diventata il primo produttore mondiale della droga Captagon e ne ha fatto la principale fonte di valuta pregiata. Per capire quanto sono ormai radicati questi traffici criminali, durante il Ramadan, in prima serata, la tv di Stato ha trasmesso On a Hot Plate, che raccontava una famiglia di spacciatori. Altra colpo durissimo è stata la pandemia. A marzo sono stati infettati anche Assad e la moglie Asma, un tempo definita da Vogue «la rosa del deserto». I contagi nel Paese hanno toccato i quasi 31.000 casi – su una popolazione di circa 17 milioni di persone – e i morti sono più di 2 mila. Ma ci sono forti dubbi sull’attendibilità dei numeri. I piani di vaccinazione non procedono bene. Non bastasse, solo la metà degli ospedali è funzionante e negli ultimi 10 anni il 70% del personale medico è fuggito.
La Siria dunque rischia di collassare definitivamente e ha bisogno di aiuti per la ricostruzione. Nel marzo scorso, alla quinta conferenza di Bruxelles sono stati promessi 4,4 miliardi di dollari nel 2021 e 2 miliardi nel 2022. In realtà, ne sarebbero necessari almeno 10. Purtroppo l’amministrazione Biden non pare intenzionata a cambiare l’approccio di Donald Trump. La Cina, invece, a Damasco è sempre più ritenuta la potenza che potrebbe fare la differenza.
A luglio il ministro degli esteri Wang Yi ha incontrato il suo omologo siriano Faisal Mekdad. In uno scatto entrambi alzano il pollice destro sorridenti, sullo sfondo spicca il ritratto di Bashar. «Bisognerebbe puntare a una transizione pacifica ma non normalizzare il rapporto con Assad, il regime infatti ha anche in mano il traffico degli stupefacenti» aggiunge l’analista Karam Shaar.
Nel frattempo il governo ha attuato una stretta nei confronti degli oppositori. Nel gennaio Hala Jerf, un’importante presentatrice televisiva, è stata arrestata dopo aver pubblicato post critici sui social. «Mettere sotto i riflettori la corruzione è un crimine più grande della corruzione stessa» ha denunciato Rajaa Jerf, la sorella della anchor woman. «Il regime ha torturato centinaia di oppositori e ne ha ucciso 20-30 volte in più dell’Isis», conferma Shaar. Il Parlamento di Damasco ha ratificato di recente una legge che ritira la cittadinanza a chi non rinnova la carta d’identità dopo 10 anni. La misura chiaramente vuole colpire coloro che se ne sono andati. Molti vorrebbero tornare, ma prima vorrebbero vedere qualcun altro al comando.
«Bashar continuerà a essere un presidente con una grave crisi di legittimità. La sua è una vittoria di Pirro» precisa Adib-Moghaddam. La famiglia Assad però governa la Siria da oltre mezzo secolo. Hafez è stato presidente prima del figlio e l’elezione farsa del 26 maggio scorso ha visto la quarta vittoria di Bashar. Non c’è luce per adesso nella lunga notte siriana.
