Nella strategia di Putin c’è il controllo di questa cruciale risorsa. Tutto risale al 2014, quando di Kiev costruì una diga sul fiume Dniepr, al confine tra Ucraina e Crimea, per irrigare quest’ultima. Una barriera fatta esplodere, non a caso, a poche ore dell’inizio del conflitto.
E se la brutale invasione russa dell’Ucraina fosse in realtà da leggere come una «guerra per l’acqua»? Tra le primissime mosse di quella che Vladimir Putin si ostina a definire «l’operazione militare speciale», in effetti, c’è stata un’esplosione fin qui poco raccontata, e ancor meno analizzata. La mattina del 26 febbraio, circa 40 ore dopo l’ingresso dei primi carri armati in territorio ucraino, i genieri russi hanno fatto saltare una piccola diga in terra e sassi dalle parti di Kherson, una cittadina a poche decine di chilometri dalla foce del fiume Dniepr e a un centinaio a nord-ovest dell’istmo che collega l’Ucraina e la Crimea.
È bastato qualche chilogrammo di tritolo e l’acqua, finalmente liberata, ha ripreso a fluire veloce in un lunghissimo canale orientato verso sud, che la diga aveva prosciugato dal 2014. L’esplosione ha indotto il presidente filorusso della Repubblica di Crimea, Sergej Aksjonov, a sperticarsi in proclami trionfali: «Onore ai nostri eroici militari, che hanno distrutto la diga costruita dai nazisti ucraini».
In realtà, da otto anni quella barriera era uno dei punti di maggiore attrito tra Russia e Ucraina. Era stata eretta nel marzo 2014, alla fine del conflitto tra i due Stati, quando la Crimea era stata annessa con la forza dalla Federazione russa. Costruendo la diga, il governo di Kiev aveva chiuso i rubinetti dell’acqua, annunciando che non li avrebbe più riaperti fino a quando la regione perduta non fosse tornata a far parte del territorio ucraino.
Il canale che era stato ostruito a Kherson, in realtà, è un’opera immensa, lunga 402 chilometri: parte poco più a nord, dall’ultimo tratto del Dniepr, e da lì si allunga verso sud, per poi correre verso est tagliando longitudinalmente tutta la Crimea settentrionale. Il suo nome in russo è «Severo-Krymskij canal», per l’appunto «Canale della Crimea settentrionale». Era stato ideato nel 1951, quando ancora il Partito comunista dell’Unione sovietica rispondeva come un automa collettivo ai voleri di Iosif Stalin.
Il suo scopo? Irrigare l’arida steppa della Crimea, una regione desertica. La costruzione era iniziata sei anni dopo, nel 1957, quando lo scettro del potere era già passato a Nikita Kruscev, che però nel 1954 aveva anche deciso d’imperio di trasferire la Crimea – con tutti i suoi abitanti – dalla Russia alla Repubblica «sorella» di Ucraina.
Il Canale fu scavato in 14 anni, praticamente a mano, da decine di migliaia di «eroici volontari», così vennero definiti dalla propaganda di Mosca, che celebrò l’opera come «geniale realizzazione dell’ingegneria sovietica» e le dedicò gli stessi toni trionfali usati per la ferrovia transiberiana Baikal-Amur: 4.234 chilometri di binario che a partire dal 1937 avevano tagliato in due la selvaggia taiga russa.
Divenuto operativo nel 1975, e rimasto attivo anche dopo la fine dell’Urss, il canale artificiale della Crimea per quasi 40 anni ha irrigato la regione trasformandola in una delle più fertili pianure europee, e ha fornito acqua a milioni di abitanti. Tutto è cambiato con la crisi del 2014, con l’annessione russa e l’improvvisa creazione dello sbarramento come ritorsione da parte ucraina. I problemi sono stati oggettivamente immensi per i nuovi padroni russi, perché il Canale garantiva l’85 per cento dell’acqua della Crimea. Così la terra coltivabile della regione, che ancora nel 2013 superava i 130.000 ettari, nel 2017 si era ridotta a un decimo: 14.000 ettari, velocemente tornati deserto. Mentre gli abitanti erano stati costretti a razionamenti d’acqua sempre più duri.
Nel 2017 le autorità russe avevano provato a rimediare costruendo pozzi e desalinizzatori, e orientando l’agricoltura verso coltivazioni con meno bisogno d’acqua. Tutto, però, era stato inutile. Nel 2020, quando era scoppiata una siccità e i razionamenti erano divenuti insostenibili, Mosca aveva deciso di trasportare l’acqua su camion attraverso il nuovo ponte costruito anche a questo scopo sullo stretto di Kerch, e costato 3,7 miliardi di dollari. Dissetare la Crimea a quel modo, però, costava davvero troppo alla Russia di Putin, si parlava allora di almeno 500 milioni di dollari l’anno.
Di una possibile guerra per l’acqua, nell’aprile 2021, aveva parlato per prima East journal, una testata online che studia con serietà quanto avviene nell’Europa orientale. Il sito segnalava che la situazione del Canale era «estremamente critica, perché per la Russia la sua acqua ha più valore dell’oro». E ipotizzava che l’obiettivo di riaprire il canale avrebbe giustificato «una guerra-lampo che permetta ai russi di impadronirsi della provincia di Kherson sino al Dniepr», ma forse anche «un’invasione generale».
Oggi nessuno lo scrive, ma l’acqua, in effetti, ha quanto meno contribuito a scatenare la guerra.