È a una svolta la partnership del Paese europeo con il gigante asiatico. Quest’ultimo, sullo scacchiere geo-economico, ora appare un’insidia. E Berlino guarda agli Stati Uniti.
Da settimane, le banchine dei porti americani sono stipate di vetture Volkswagen. I marchi coinvolti sono Porsche, Bentley e Audi. I portavoce del gruppo, imbarazzati, ammettono che sì, effettivamente c’è un grosso problema con le dogane statunitensi. Le ricostruzioni giornalistiche ci danno ulteriori dettagli: lo stop alle macchine tedesche è legato a un piccolo componente elettronico, prodotto nella regione cinese dello Xinjiang da un subfornitore locale, che viola una norma Usa contro il lavoro forzato. Si stima che il componente in questione sia montato su circa 13 mila vetture, ma il timore dei tedeschi è che i controlli americani possano farsi molto più pressanti. Timore comprensibile, dal momento che lo scorso anno Volkswagen ha venduto quasi un milione di macchine negli Stati Uniti. Nel frattempo, in Germania si sta provando a capire come risolvere il problema.
Sostituire il pezzo in questione richiede fino a mezz’ora di tempo, a seconda del tipo di vettura. Impossibile, però, occuparsene en plein air nei porti: il compito toccherà ai rivenditori Usa. Anche la scorsa estate c’erano stati problemi con le dogane americane, ma Volkswagen era ancora convinta di poter tenere «geo-economicamente» il piede in due staffe. Di poter, cioè, produrre e vendere sia in Cina sia in Nordamerica. Per inciso, il colosso di Wolfsburg non era il solo gruppo industriale tedesco a nutrire tale aspettativa. Oggi, invece, l’industria chimica Basf ha annunciato di voler chiudere le sue joint venture con soci cinesi a causa di soprusi contro i lavoratori uiguri.
Pesano le sempre più frequenti rivelazioni sulla brutalità del regime di Pechino, inaccettabili per i grandi investitori internazionali, pronti a dire la loro nei consigli e nelle assemblee dei grandi gruppi quotati. Lo sa bene anche Volkswagen, che ormai finisce sui giornali con frequenza settimanale a causa della propria esposizione alla Cina, e deve già fare i conti con azionisti sempre più attenti. Come il fondo pensione della Church of England (la chiesa anglicana), che nel recente passato ha duramente criticato le politiche ambientali della casa automobilistica cinese. Pesa, poi, la strategia che il governo tedesco sta perseguendo per prepararsi all’eventualità di una vittoria di Donald Trump alle prossime presidenziali Usa. Gli strateghi tedeschi puntano su «Deutschland AG», com’è comunemente noto l’establishment industriale del Paese, anziché sulla comunità diplomatica Berlino. Per il momento, infatti, un corteggiamento diretto a Trump è fuori discussione, specie da parte di politici e diplomatici tedeschi.
L’idea è quella di coltivare legami con influenti senatori e governatori statunitensi considerati vicini a Trump, che rappresentano anche collegi elettorali in cui le aziende tedesche hanno una forte presenza e, tra posti di lavoro diretti e indotto, hanno argomenti da far valere. Il senatore repubblicano Thom Tillis della Carolina del Nord, uno Stato che nel 2022 importerà 4,5 miliardi di dollari dalla Germania e dove Siemens Energy, Daimler e Bosch hanno stabilimenti, risponde a questo identikit. Il rappresentante della Carolina del Sud Lindsey Graham, che ha da poco incontrato la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock nel settembre dello scorso anno, è un altro esempio di questa strategia. In Carolina del Sud, d’altra parte, i tedeschi sono ben presenti: la casa automobilistica Bmw impiega 13 mila lavoratori nella sua fabbrica di Spartanburg, e Daimler Truck ha in programma l’apertura di uno stabilimento per la produzione di celle a batteria con duemila dipendenti, rafforzando la convinzione, ormai consolidata, che «l’American made» è un ottimo biglietto da visita da spendere a Washington.
Pesa, soprattutto, la circostanza che le case automobilistiche cinesi siano ormai il principale concorrente della stessa Volkswagen non solo in Cina ma anche in Europa. Si tratta della fase finale di un lungo ciclo nei rapporti sino-tedeschi. Una prima fase, che vedeva unite nell’abbraccio con Pechino sia le élite politiche tedesche, sia Deutschland AG, si è esaurita con il lungo cancellierato di Angela Merkel. Una seconda fase vedeva una divergenza tra politica e industria, con la prima già riorientata verso Washington e la seconda riluttante a lasciare il gigante asiatico. Ora, nella terza fase anche Deutschland AG decide che Pechino non è più un’opportunità, bensì una insidia.n
* Esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar © riproduzione riservata
