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Vladimir Putin dopo l’Ucraina

Vladimir Putin dopo l’Ucraina

Nonostante tutto il capo del Cremlino gode di ampio consenso tra la popolazione, ma oggi in molti riflettono sulla sua capacità di guidare il Paese. E nel suo entourage cresce l’insofferenza. Ma un eventuale successore dovrà proseguirne la «missione»: garantire
la forza e il prestigio dell’Impero russo. Ecco chi potrebbe essere il nuovo leader.


Sostituire lo zar è uno scenario davvero possibile? In altri tempi questa domanda avrebbe avuto facile risposta, niet. Ma oggi vale quantomeno la pena domandarselo. Chi scrive non ha mai amato la definizione di zar, ovvero «cesare», per definire Vladimir Putin. Un appellativo macchiettistico, per certi aspetti persino canzonatorio. Eppure, per inquadrare le dinamiche della sua successione, occorre scomodare il titolo imperiale che la Russia ha usato dai tempi di Ivan il Terribile fino alla rivoluzione bolscevica. Sì, perché la Russia è sempre stata un impero, e come tale va trattato. Almeno quando la logica del ragionamento si posa sulla sua leadership.

Come noto, la nuova costituzione russa consente a Putin di restare al Cremlino sino al 2036, ma solo in pochi lo sperano davvero. Specialmente all’interno del suo entourage. Dove, tra oligarchi e vertici istituzionali, da tempo monta l’insofferenza per i metodi sempre più stalinisti che il presidente ostenta di fronte ai suoi consiglieri (ne sia prova l’umiliazione patita dal capo dell’intelligence Sergey Naryshkin in diretta televisiva di fine febbraio, alla vigilia della decisione di annettere il Donbass).

Certamente il consenso popolare di cui gode Putin nella Russia profonda rimane alto; più di una fazione dell’élite di Mosca, però, inizia a mettere in dubbio la sua capacità di guidare il Paese. Un processo cominciato con la pandemia e sublimato dall’invasione dell’Ucraina, che rischia di provocare più danni che benefici nel lungo periodo. La cerchia ristretta del presidente, peraltro, non aderisce esattamente ai terminali di comando del Cremlino: è la fazione di San Pietroburgo, che non solo detiene il controllo delle parti più succose dell’economia russa, ma ha anche un accesso privilegiato al leader, che ascolta sempre meno e appare sempre più isolato e autoritario.

È un riflesso della storia personale di Putin: quando il suo predecessore Boris Eltsin, ormai malato, per ripristinare l’ordine nel Paese chiese aiuto ai servizi segreti russi, diversi esponenti dei servizi assunsero alti incarichi nell’Amministrazione presidenziale e presero a controllare tutti gli apparati dello Stato. Era il 1996, anno della sua rielezione. Fu la cosiddetta «corporazione cekista», cioè degli uomini provenienti dalla polizia segreta che acquisirono un potere immenso dopo il collasso dell’impero sovietico.

Molti tra i più qualificati ufficiali tirarono la volata a Vladimir Putin, che nel 1999 divenne presidente. I cekisti percepivano sé stessi come investiti da una missione salvifica: prevenire la disgregazione della Russia e la sua regressione nel caos, ricostruendo uno Stato forte e ripristinando il prestigio e la potenza imperiale perdute. Un fatto che non è mai più cambiato.

Ecco perché, per ipotizzare chi potrà sostituire Putin, non si può non considerare che quel qualcuno dovrà esser per forza un esponente che condivide tale logica. E dovrà non dispiacere allo zar stesso. Il quale senza dubbio, per un eventuale passaggio di consegne, pretenderà una sorta di imprimatur che gli consenta di ritirarsi garantendosi l’immunità personale: in tal senso, il modello è quello dell’ex presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev.

A 80 anni, Nazarbayev si è dimesso da capo di Stato mantenendo il titolo di «leader della nazione» e il ruolo di capo del Consiglio di sicurezza, di fatto l’autorità politica suprema. Questo schema piace molto a Putin e garantirebbe una transizione più agevole del comando. Nominare un successore prima della fine del suo mandato, invece, potrebbe minare la sua posizione anzitempo. In ogni caso, Putin non consentirà che il potere della sua cerchia venga ristretto. Né è ipotizzabile un golpe di palazzo, perché questo esporrebbe la Russia a una catastrofe che nessuno nella Federazione desidera.

Perciò, il successore non potrà essere un leader del popolo come Alexey Navalny, l’oppositore numero uno di Putin (da lui avvelenato e fatto incarcerare) che immagina per sé un crescente consenso elettorale. E nemmeno Valentina Matvienko, unico volto femminile nell’entourage di Putin: a capo del Consiglio della Federazione russa, grazie alla sua firma i senatori hanno dato al presidente il via libera all’invasione. La sua fedeltà è discutibile: mentre suo figlio «svacanza» in giro per l’Europa, lei acquista ville in Italia e appare più interessata all’Occidente e ai suoi privilegi che non alla causa russa.

Nemmeno il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, diplomatico cresciuto nei palazzi e tra gli intrighi della Russia di Leonid Breznev, è più nelle grazie di Putin. Temuto e rispettato in Occidente per la sua intransigenza mista a pragmatismo, non ha mai mancato di criticare in maniera costruttiva finanche il presidente: la sua posizione per il dialogo con gli Stati Uniti a poche ore dall’inizio del conflitto ne ha marcato la distanza definitiva dal leader.

Semmai, il successore dovrà essere qualcuno che ancora riesce a esercitare influenza su di lui: tra questi vi è l’ex capo del Fsb e attuale capo del Consiglio di sicurezza, Nikolai Patrushev. Ovvero uno dei principali teorici dell’uso delle debolezze occidentali per espandere il potere geopolitico della Russia in Europa e oltre. Colui il quale, insieme al fondatore di Mežprombank Sergei Pugacev, ha contribuito forse più di tutti all’ascesa al potere dello zar.

C’è chi ha intravisto la possibilità che la figura più idonea risulti alla fine l’ex presidente e premier, Dmitri Medvedev: l’uomo che in tandem con Putin ha guidato la Russia per molti anni. «Medvedev è più facile da trattare di Putin, ma sta favorendo l’attuale disastro, e lo stesso vale per Lavrov» sentenzia Colin P. Clarke, ricercatore senior al think tank geopolitico Soufan Center. Tuttavia «potrebbe avere una possibilità, se Putin venisse rimosso e la Russia fosse sull’orlo del completo collasso» ritiene Vera Tolz-Zilitinkevic dell’Università di Manchester.

Chi segue la crisi con preoccupazione è certamente Igor Sechin, ex agente segreto russo ed ex segretario particolare di Putin, nonché custode dell’impero finanziario dello zar. Oggi è l’amministratore delegato di Rosneft, la compagnia petrolifera di Stato che rischia di venire travolta dalla crisi: conoscendo i punti deboli di Putin, potrebbe forse convincerlo al passo indietro in extrema ratio. Ma non senza l’aiuto dei capi delle due agenzie d’intelligence Alexander Bortnikov, che guida l’Fsb, e Sergey Naryshkin, direttore dell’Svr e già presidente della Duma.

In definitiva, restano in piedi gli unici due uomini che condividono con Putin il potere più grande e devastante della Russia, ossia i codici per il lancio nucleare. Sono il ministro della Difesa Sergej Shoigu e il capo di Stato maggiore interforze Valerij Gerasimov. Militari e fedelissimi di Putin, condividono col presidente la logica cekista. Ma la loro sorte dipenderà anche dall’esito della guerra in Ucraina: il capo di Stato maggiore, in particolare, è artefice della «dottrina Gerasimov» ossia la strategia di guerra ibrida che ha già permesso a Putin di prendere la Crimea nel 2014.

Mentre Shoigu, popolarissimo in Russia, ha molto in comune con lo zar del Cremlino: entrambi di San Pietroburgo, hanno la stessa visione del mondo e le medesime paranoie. È lui che assistette lo zar contro gli oligarchi e ne ha rafforzato nel tempo il potere e, dall’avvelenamento dell’ex agente dissidente Alexander Litvinenko all’invasione ucraina, è sempre stato al suo fianco.
Da non sottovalutare, infine, l’attuale primo ministro Mikhail Mishustin. Sconosciuto ai più, un po’ come fu per Vladimir Putin, questo oscuro ex funzionario della polizia fiscale sarebbe ben visto anche dai governatori della Russia.

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