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Non dimentichiamo gli altri ostaggi

Non dimentichiamo gli altri ostaggi

Dopo la liberazione di padre Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio sono ancora una dozzina i nostri connazionali in mano a jihadisti, bande di criminali e milizie, in alcuni casi da anni, in Africa così come in Messico. Rapiti «di serie B», ignorati dai media, finiscono quasi sempre per diventare invisibili.


Padre Pier Luigi Maccalli, da due anni nella mani delle bande jihadiste del Califfato africano, è stato liberato l’8 ottobre assieme a Nicola Chiacchio, un turista fai-da-te suo compagno di prigionia. A Bengasi, però, sono ancora prigionieri 18 pescatori, otto italiani e altri 10 originari della Tunisia, del Senegal e del Bangladesh catturati il 1° settembre dagli uomini del generale Khalifa Haftar al largo della Libia. Sulla loro sorte, spinosa dal punto di vista politico, si cerca di fare calare il silenzio. Per non parlare degli ostaggi dati per morti e mai ritrovati come padre Paolo Dall’Oglio in Siria e tre napoletani spariti in Messico.

«Il 17 settembre, per il secondo anniversario del rapimento di padre Maccalli, c’era stato un totale disinteresse. Ora l’incubo è finalmente finito» dichiara a Panorama Alessandro Monteduro della fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre, che si è battuta per la liberazione del religioso. Il missionario cremonese di 59 anni era stato rapito nel 2018 in Niger da una banda di criminali jihadisti. Poi è stato trasferito più volte, forse venduto a un’altra fazione del terrore e infine recluso nel nord del Mali. I sequestratori fanno parte del Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani, ex Al-Qaida del Maghreb oppure dello Stato islamico nel grande Sahara.

«Grazie a Dio tutto si è concluso nel migliore dei modi, ma la percezione in questi due anni è che ci siano ostaggi di due categorie, anche se la matrice terroristica dei rapitori risulta la stessa, come nel caso di Silvia Romano (liberata in Somalia in maggio e convertita all’Islam, ndr)» spiega Monteduro. «Per la volontaria italiana c’è stata una grande mobilitazione popolare e conseguentemente anche governativa». Al contrario, «per Maccalli era sceso l’oblio forse perché si tratta di un religioso, un missionario che ha speso la vita per l’evangelizzazione».

Luca Tacchetto è un ex ostaggio rapito nel dicembre 2018 in Burkina Faso assieme alla compagna canadese. I due sono tornati a casa in marzo dopo 15 mesi di prigionia in mano agli stessi jihadisti che hanno tenuto in ostaggio il missionario italiano. «Ci spostavano spesso dalla foresta al deserto, la vera anticamera dell’inferno» racconta oggi Tacchetto. «Ogni giorno è una lotta per salvarsi la pelle, perché per loro sei sempre un infedele».

Il giovane padovano non può dire molto a causa del segreto istruttorio, ma aveva «incontrato padre Maccalli. Dimagrito, ma in salute e ancora con la testa ben attaccata alle spalle, che ti permette di non lasciarti andare e impazzire». L’ex ostaggio sostiene di essere riuscito a fuggire e spera, poche ore prima della notizia sulla liberazione dei connazionali, «che si faccia tutto il possibile per portare a casa i due italiani e gli altri ostaggi. Ancora oggi mi chiedo ogni giorno se valga di più il silenzio, il basso profilo o la mobilitazione».

Il 6 ottobre è riemersa dal Califfato africano Sophie Petronin, 75 anni, cooperante rapita nel 2016 e liberata in cambio del rilascio di 180 prigionieri jihadisti. I due italiani rilasciati facevano probabilmente parte dello stesso accordo. Sophie sarebbe l’ultimo ostaggio francese, ma in Mali e dintorni ci sono ancora cinque ostaggi occidentali nelle mani dei jihadisti, un tesoretto che frutta milioni di dollari.

In aprile i carcerieri degli italiani avevano inviato un breve video di padre Maccalli assieme a Nicola Chiacchio, che non si sapeva neppure fosse stato rapito dai terroristi. Gli ostaggi pronunciavano i loro nomi e la data di registrazione del filmato, 24 marzo, come prova in vita. Chiacchio, un turista fai-da-te, aveva deciso di attraversare il Mali in bicicletta. Le ultime notizie risalivono al 4 febbraio 2019. Poi è stato rapito lungo la pista di sabbia di 200 chilometri che porta a Timbuctù. Per fortuna è stato liberato assieme a padre Maccalli, dopo averne condiviso la prigionia.

Al contrario, fino all’8 ottobre 18 membri degli equipaggi di due pescherecci di Mazara del Vallo, compresi otto italiani, erano ancora prigionieri a Bengasi dal 1° settembre dopo essere stati catturati a 38 miglia dalle coste libiche dalle motovedette dell’uomo forte della Cirenaica, il generale Haftar. I pescatori avevano gettato le reti nella zona marittima esclusiva autoproclamata fin dai tempi del colonnello Muammar Gheddafi. In realtà il sequestro è uno «schiaffo» all’Italia e al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che lo stesso giorno era in visita in Libia, ma aveva snobbato Haftar.

«In base alla ricostruzione di uno dei marinai che è riuscito a evitare la cattura e ai familiari dei pescatori prigionieri era stata chiamata in aiuto la Vigilanza pesca (un sistema di intervento della Marina militare, ndr), ma per circa 20 minuti hanno sempre risposto “stiamo arrivando”. E poi l’ultima comunicazione è stata che non potevano intervenire perché “siete in acque libiche”» denuncia a Panorama Giorgio Randazzo, consigliere comunale della Lega a Mazara.

I libici vorrebbero uno scambio con quattro connazionali in carcere in Italia come scafisti dei migranti. A Bengasi li considerano «giovani calciatori», che speravano di giocare a pallone nel nostro Paese. A giorni dovrebbe iniziare il processo ai pescatori prigionieri davanti alla Procura militare. Gaspare Bilardello, ex armatore, dell’Associazione progetto Isola di Mazara del Vallo, rivela che «stiamo lavorando per l’invio di una delegazione a Bengasi su richiesta dai libici sia per allacciare rapporti economici sia per incontrare i nostri pescatori».

Cristina Amabilino, moglie di Bernardo Salvo, uno dei marinai prigionieri, ha deciso con altri familiari dei prigionieri in Libia di incatenarsi davanti a Montecitorio. «Vogliamo solo che gli uomini tornino a casa. E prima che inizi il processo. Non ci muoviamo fino a quando non riabbracciamo i nostri cari» dice la signora. «Siamo invisibili e anche con le catene fanno finta di non vederci. C’è una cappa di silenzio, ma dobbiamo accendere i riflettori sui 18 pescatori prigionieri in Libia».

Dalla Siria al Messico altri quattro italiani presi in ostaggio sono spariti nel nulla e si teme che siano stati uccisi, ma non esistono prove definitive. Il caso più famoso riguarda padre Paolo Dall’Oglio scomparso in Siria, a Raqqa, il 29 luglio 2013, dopo essere entrato nel comando dello Stato islamico, che aveva proclamato la città sua capitale. Sulla sorte del religioso non si sono mai avute notizie certe: sedicenti testimoni, informatori, negoziatori, disertori e prigionieri jihadisti lo avrebbero visto fino allo scorso anno durante l’assedio di Baghuz, ultima sacca del Califfato in Siria. Altre fonti sostengono che sia stato ucciso subito, ma senza alcuna prova concreta. Il suo corpo sarebbe stato gettato nella «foiba» di Al-Houta a una cinquantina di chilometri da Raqqa.

«La mia fiducia è scomparsa. Come famiglia dopo 7 anni non abbiamo alcun riscontro concreto, ma poi la speranza è l’ultima a morire» afferma la sorella del religioso, Francesca Dall’Oglio. «Stiamo cercando informazioni sulle fosse comuni di Raqqa, ma bisognerebbe chiedere anche a Bashar al Assad (il presidente siriano, ndr) che fine ha fatto mio fratello. È appena stata riportata in Italia Alice Brignoli, la donna italiana che aveva aderito all’Isis in Siria. Forse ha qualche informazione. Anche una jihadista rientrata in Bosnia avrebbe visto Paolo». Francesca Dall’Oglio è pronta a qualsiasi notizia, anche la più tragica sul destino del fratello, «ma che sia la verità sulla sorte di Paolo».

La vicenda di Raffaele Russo, suo figlio Antonio e il nipote Vincenzo Cimmino scomparsi il 31 gennaio 2018 in Messico è ancora più dimenticata e incredibile. Tutti napoletani, che si arrangiavano e sono stati venduti come ostaggi per appena 43 euro a testa. L’avvocato Claudio Falleti, che si occupa del caso, ci dice: «Purtroppo ci sono italiani di serie A e di serie B: Raffaele, Antonio e Vincenzo facevano i venditori ambulanti, non lavoravano certamente per una Ong, ma non si può continuare a tacere di fronte a uno scandalo internazionale di questa portata, dove a consegnare tre connazionali a un gruppo di criminali è stata la polizia locale al libro paga dei narcos».

Gli agenti corrotti sono stati arrestati, ma il capo banda José Guadalupe Rodriguez Castillo alias El Quince sarebbe rimasto vittima di una faida interna. Proprio lui, in un’intercettazione ottenuta grazie all’intervento dell’Onu, risponde «fatene ciò che ritenete più opportuno» a un personaggio non identificato che gli chiede istruzioni su «tre italiani di cognome Russo». Il prossimo gennaio saranno passati tre anni dal sequestro e secondo l’avvocato «fino a quando non vengono trovati i loro corpi per la famiglia sono ancora scomparsi».

Ci sono sequestrati di serie A e sequestrati di serie B

Non dimentichiamo gli altri ostaggi
Frame tratto da un video del marzo 2020 che mostrava padre Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio, rapiti nel settembre 2018 in Niger.

Dopo due lunghi e angosciosi anni di prigionia, Padre Pierluigi Maccalli è finalmente libero. È un momento di gioia per i suoi familiari e confratelli, per tutti i cattolici e per i connazionali. La comunità dei benefattori di Aiuto alla Chiesa che Soffre (Acs) lo ha accompagnato durante il sequestro con la preghiera fervorosa.

Acs nei mesi scorsi non ha mancato di alzare la voce per sottolineare pubblicamente un’irritante realtà, e cioè l’automatica collocazione dei sequestrati in due distinte categorie, quella coerente con il diffuso pensiero basato sui dettami del politicamente corretto, e quella residuale, in cui finiscono anche quanti hanno scelto di donare la vita per la missione in territori in cui il Vangelo non ha ancora raggiunto le popolazioni, in territori in cui, per giunta, imperversa la persecuzione.

In un Occidente che ha sostanzialmente firmato l’atto di apostasia, abbandonando la fede cristiana, i missionari appaiono come dei romantici, imprudenti, illusi sventurati, i quali, se disgraziatamente rapiti, non meritano particolari attenzioni da parte delle Istituzioni e neanche una menzione nei rituali elenchi del «connazionali rapiti all’estero» predisposti in molte redazioni giornalistiche.

Dopo la gioia della liberazione deve subentrare la riflessione. Il contesto dell’Africa in cui Padre Gigi è stato rapito non è stato ancora bonificato dalla presenza jihadista. Di questo si dovrebbero preoccupare anche quanti pensano solo al proprio orticello, perché la circolazione degli estremisti islamici e la radicalizzazione di quanti sono già presenti in territorio occidentale rappresentano una minaccia costante.

Rallegriamoci quindi per la liberazione del nostro connazionale rapito, ma facciamolo cambiando la nostra mentalità per far sì che lo slancio missionario sia doverosamente apprezzato e adeguatamente protetto.

Alessandro Monteduro

Direttore Aiuto alla Chiesa che Soffre – Italia

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