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Israele, la piazza preme, Netanyahu resiste

Israele, la piazza preme, Netanyahu resiste

Centinaia di migliaia di manifestanti chiedono la fine del conflitto e la liberazione degli ostaggi, mentre il governo rifiuta tregue parziali e insiste sull’offensiva a Gaza. Un Paese stremato, diviso e isolato sulla scena internazionale.

Israele è un Paese attraversato da una tensione crescente. Dopo quasi due anni di conflitto nella Striscia di Gaza, la società civile mostra chiari segni di logoramento. Negli ultimi giorni le proteste si sono moltiplicate: decine di manifestanti hanno bloccato la Route 1 e la Route 6, le principali arterie che collegano Gerusalemme e Tel Aviv, incendiando pneumatici e sventolando striscioni con la scritta «Fine della guerra, riportiamo tutti a casa». In serata la mobilitazione ha assunto proporzioni più vaste. Almeno 350.000 persone hanno marciato da Tel Aviv fino a Piazza degli ostaggi, chiedendo un accordo immediato per la liberazione dei circa cinquanta prigionieri (tra vivi e morti), ancora trattenuti da Hamas. È un segnale forte: Israele è un Paese stanco, che vuole ritrovare normalità e sicurezza, ma che sente anche di essere intrappolato in una guerra senza fine.

Sul fronte politico, però, la situazione resta bloccata. Mentre le strade si riempivano di manifestanti, a Gerusalemme si riuniva il gabinetto di guerra. Secondo quanto riportato dai media israeliani, l’incontro si è chiuso senza affrontare nel dettaglio la proposta avanzata da Hamas, che prevedeva una tregua di sessanta giorni e la liberazione di dieci ostaggi. La riunione è durata meno di tre ore e non ha portato a nessuna votazione formale. La decisione di concludere i lavori in anticipo per permettere ai ministri di partecipare a una cena in Cisgiordania ha alimentato ulteriori polemiche. Nonostante le pressioni interne e internazionali, la linea del governo resta ferma: niente accordi parziali, ma solo un’intesa complessiva che comprenda la liberazione di tutti i rapiti e un cessate il fuoco duraturo. È una posizione che può apparire intransigente, ma che trova fondamento in un dato storico: Hamas ha più volte disatteso gli impegni presi in passato, utilizzando tregue temporanee per riorganizzarsi, ricostruire i tunnel e rifornirsi di armi. Da qui la diffidenza, che spinge Netanyahu e i suoi ministri a proseguire l’offensiva su Gaza City per aumentare la pressione militare e costringere il movimento islamista a cedere. Questa rigidità, tuttavia, si scontra con la crescente sfiducia della popolazione verso la leadership. Dopo due anni di guerra, Netanyahu appare a molti israeliani come un leader incapace di garantire sicurezza e stabilità. La promessa di annientare Hamas e riportare a casa tutti gli ostaggi non si è concretizzata, mentre la guerra ha prodotto lutti, isolamento internazionale e pesanti contraccolpi economici per il futuro dato che questa guerra costa miliardi dollari.

Un Paese complesso che sfugge alle nostre logiche

Eppure, per comprendere davvero la complessità di questo quadro, occorre abbandonare la lente europea con cui troppo spesso si analizzano i fatti israeliani. Israele non è un Paese assimilabile alle democrazie europee: è una nazione nata e cresciuta in uno stato di conflitto permanente, dove ogni decisione politica è inevitabilmente intrecciata con la sicurezza nazionale, la memoria storica e l’identità collettiva. Applicare categorie occidentali – come la semplice contrapposizione tra piazza e governo, o tra diplomazia e intransigenza – rischia di produrre letture superficiali. La società israeliana è attraversata da correnti ideologiche, religiose e culturali che la rendono unica: dalla componente laica e progressista delle grandi città alla spinta nazionalista e religiosa delle colonie, fino alla diaspora di famiglie segnate da esperienze traumatiche come la Shoah o le guerre con i Paesi vicini. In questo mosaico, le decisioni del governo – comprese quelle che in Europa appaiono incomprensibili o eccessivamente dure – trovano un contesto che sfugge alle nostre logiche. Netanyahu si muove dunque in un equilibrio fragile. Da un lato, la rabbia delle piazze e il calo vertiginoso della fiducia popolare. Dall’altro, la consapevolezza che ogni cedimento prematuro potrebbe rafforzare Hamas e minare la sicurezza a lungo termine del Paese. È un calcolo politico e strategico che difficilmente può essere valutato solo con parametri europei. Israele resta così sospeso tra due spinte contrapposte: la richiesta di un cessate il fuoco immediato per salvare vite umane e l’esigenza di non ripetere errori del passato, concedendo a Hamas l’ennesima tregua utile a riorganizzarsi. Nel frattempo, la società civile continua a scendere in piazza, esprimendo il volto di un Paese che vuole pace e sicurezza, ma che sa anche – a differenza delle opinioni esterne – quanto sia fragile il confine tra tregua e nuova escalation. Sul piano internazionale, la guerra ha già inciso profondamente sulla posizione di Israele. Gli Stati Uniti restano il principale alleato, ma non mancano frizioni: Washington spinge per un cessate il fuoco che allevi la crisi umanitaria e favorisca la liberazione degli ostaggi, mentre Netanyahu teme che un accordo parziale indebolisca la deterrenza militare. In Europa, invece, cresce l’isolamento: diversi governi hanno ridotto il sostegno politico e l’opinione pubblica manifesta sempre più ostilità, alimentando anche un antisemitismo riemerso con forza anche grazie alla campagna mediatica pro Hamas . La capacità di Netanyahu di mantenere saldo il rapporto con Washington e di limitare i danni in Europa sarà cruciale non solo per la sopravvivenza del suo governo, ma anche per la posizione internazionale di Israele. Un compito reso ancora più difficile da un Paese diviso al suo interno, stanco della guerra ma sempre diffidente verso ogni tregua con Hamas.

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