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Il Sahara è l’Afghanistan dei francesi

Il Sahara è l’Afghanistan dei francesi

  1. Le formazioni jihadiste legate allo Stato islamico e Al Qaida stanno rialzando la testa, sempre più attive e pericolose, soprattutto in Niger, Mali e Burkina Faso. Parigi cerca di nascondere la debacle nell’intera area del Sahel.
  2. Ma i tentacoli della piovra dell’Isis si sono addirittura espansi fino al Mozambico, il fronte più a sud delle bandiere nere che sventolano per il Califfato.

All’interno immagini delle fosse comuni dell’Isis nell’ex colonia portoghese.



Il Sahel è storicamente zona di interessi e operazioni della Francia. Mentre a Berlino si riuniva il summit per la Libia, il ministro della Difesa francese, Florence Parly, era diretta nella zona calda dell’Africa sub sahariana con i suoi omologhi di Portogallo, Svezia ed Estonia. L’obiettivo è dare vita a una nuova missione, che si concentrerà sulla nascente forza «Takuba», spada in lingua tuareg. Un contingente di forze speciali europee, che dovrebbe essere operativo entro l’estate. Non è escluso che pure l’Italia sia chiamata a fare la sua parte, anche se la missione è combat. «Intendiamo incrementare la nostra presenza in Sahel, dove si assiste a una recrudescenza del terrorismo di matrice confessionale e i cui interessi si riflettono direttamente sullo scenario libico» ha dichiarato il 15 gennaio il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini.

La regione del Sahel sta vivendo negli ultimi mesi «un’ondata devastante e senza precedenti» di attacchi terroristici che hanno «minato la fiducia della popolazione» con conseguenze umanitarie «allarmanti» denuncia Mohamed Ibn Chambas, inviato speciale dell’Onu. Secondo le Nazioni Unite, oltre 4mila militari e civili hanno perso la vita nel triangolo maledetto fra Niger, Mali e Burkina Faso per mano jihadista. «Il focus geografico degli attacchi si è spostato verso Est e sta minacciando sempre più gli Stati costieri dell’Africa occidentale» sostiene l’invito speciale del Palazzo di Vetro. Solo nel piccolo e povero Burkina Faso i morti sono stati 1800 nel 2019 e gli sfollati, a causa delle violenze, mezzo milione.

GRUPPI E ATTACCHI JIHADISTI
Il 13 gennaio sono stati silurati il Capo di stato maggiore dell’esercito in Niger, generale Ahmed Mohamed e tre alti ufficiali. Fra dicembre e gennaio sono morti 174 soldati negli attacchi jihadisti a due basi nella zona sempre più turbolenta al confine con il Mali. Gli assalti sono stati rivendicati dallo Stato islamico dell’Africa occidentale.
Sempre in gennaio, 18 caschi blu delle Nazioni Unite sono rimasti feriti nell’attacco con razzi contro la base di Tessalit, nel nord del Mali, dove sono di stanza forze statunitensi, francesi e locali. Dal 5 gennaio sono saltati in aria cinque militari e 14 civili, compresi sette studenti, a causa di trappole esplosive in Burkina Faso. Nella zona confinaria con il Mali i gruppi jihadisti stanno intensificando gli attacchi, ma colpiscono quasi in tutto il paese bruciando chiese e assaltando istituzioni pubbliche. In novembre sono stati uccisi 37 dipendenti della compagnia mineraria canadese Semafo.

Lo Stato islamico del Grande Sahara è in posizione dominante rispetto alle formazione armate legate ad Al Qaida nate nel Maghreb, ma i due gruppi cooperano sul terreno. I seguaci del Califfo si sono espansi «grazie alla capacità di far leva su profonde linee di fratture sociali» fa notare Alessio Iocchi, dell’Istituto norvegese di affari internazionali. In una ricerca, l’analista spiega che i militanti jihadisti strumentalizzano «i conflitti intercomunitari per l’accesso alle limitate risorse naturali tra pastori semi-nomadi e agricoltori stanziali esacerbando tensioni etniche preesistenti tra comunità fulani, dogon, tuareg o bambara». E così rafforzano «il radicamento territoriale alimentando l’instabilità regionale».


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Una galleria degli orrori commessi in Mozambico a fine 2019 da un gruppo jihadista legato all’Isis.


LA GUERRA PERDUTA DELLA GRANDEUR
Non è un caso che, il 13 gennaio, il presidente francese Emmanuel Macron, abbia riunito i leader di Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad, Mauritania a Pau sui Pirenei per un summit sulla lotta al terrorismo nel Sahel. La città ospita la base in cui stavano gran parte dei 13 militari francesi che hanno perso la vita in Mali per la collisione di due elicotteri a fine novembre. Dal 2013, quando Parigi ha dato il via all’operazione Serval per fermare l’avanzata jihadista in Mali (poi rinominata Barkhane) sono morti 41 soldati. Ai 4500 uomini di Parigi dislocati in tutti i punti caldi del Sahel si aggiungono i 15mila della missione Onu (Minusma) in Mali. E dal 2017 è stata istituita una forza congiunta di 5mila uomini del cosiddetto G5 Sahel composto da Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger.

Ostacoli logistici, mancanza di fondi elargiti solo in parte dall’Europa e problemi interni di gestione del coordinamento comune hanno limitato fortemente le capacità operative locali. Parigi spende per le operazioni militari nel Sahel 700 milioni di euro l’anno e si trova di fronte a un crescente sentimento anti francese. L’ex primo ministro del Burkina Faso, Yacouba Isaac Zida, ha sostenuto che «la sicurezza della regione non può essere garantita da un sistema il cui telecomando si trova a 6 mila chilometri dal Sahel, all’Eliseo». Un giorno prima del summit si è riunita una folla a Bamako, capitale del Mali, che urlava «abbasso la Francia».

Marc-Antoine Pérouse de Montclos, direttore delle ricerche all’Istituto per lo sviluppo di Marsiglia, ha appena pubblicato un libro dal titolo inequivocabile: «Una guerra perduta: la Francia nel Sahel». Secondo l’autore è impossibile sradicare il terrorismo nella regione senza «ricostruire» gli Stati piagati dalla corruzione, crisi economica e inefficienza. Alla fine Macron ha ottenuto il via libera incondizionato dei leader africani al vertice di Pau sull’«impegno militare della Francia nel Sahel» con una nuova strategia. Una completa ridefinizione delle operazioni militari nelle aree di confine tra Mali, Burkina Faso e Niger, dove si sono concentrati gli attacchi negli ultimi mesi. I corpi speciali europei della Task force Spada saranno integrati nella missione Barkhane, che verrà rafforzata con l’invio di 220 uomini di rinforzo.

VIA GLI USA, ARRIVANO GLI ITALIANI
Gli americani hanno 7mila uomini in Africa, in gran parte appartenenti ai corpi speciali concentrati soprattutto in Somalia contro la minaccia jihadista degli Al Shaabab, la costola locale di Al Qaida. Duemila militari Usa conducono missioni di addestramento e partecipano a operazioni anti terrorismo in decine di Stati africani. Il Pentagono, che ha istituito un comando Africa con sede a Stoccarda, in Germania, garantisce ai francesi un prezioso supporto logistico e di rifornimento in volo per i caccia bombardieri. La Casa Bianca ha ordinato di ridurre sensibilmente il contingente americano nel continente africano, come in Afghanistan, considerandoli, a torto, fronti jihadisti di serie B. “Spero di riuscire a convincere il presidente Trump che la lotta al terrorismo si gioca anche in questa regione e che il tema libico non può essere separato dalla situazione nel Sahel” ha replicato il presidente Macron, che punta a rimpiazzare gli Usa con i corpi speciali europei.


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L’Italia schiera in Africa, compresa la Libia, 10 mini contingenti per un totale di 634 uomini con una base fissa a Gibuti. Le nostre missioni riguardano tutta la fascia del Sahel fino al Corno d’Africa. Dalla Somalia, con 123 militari impegnati nelle operazioni di addestramento europeo sotto il comando generale Antonello De Sio, fino al Mali, dove sono presenti un pugno di uomini dei corpi speciali con compiti simili. Il contingente più grosso è dislocato in Niger, con una previsione massima di 290 militari, 160 mezzi terrestri e cinque mezzi aerei. Il mandato prevede anche operazioni antiterrorismo al fianco delle forze di sicurezza locali e di spostarci al confine con la Libia, porta d’ingresso dei migranti. “Siamo ancora in alto mare” spiega una fonte militare di Panorama. «In Niger sono appena stati rimossi i vertici della Difesa e non abbiamo ancora ottenuto la piena concessione governativa per la nostra base» nella capitale.

Il ministro Guerini ha annunciato il potenziamento della presenza italiana nel Sahel. I grillini, da tempo, volevano ritirare gli 800 uomini dall’Afghanistan per rinforzare il Niger e dintorni. L’area del Sahel può sembrare lontana dai nostri interessi nazionali, a parte il riflesso sulla crisi libica, ma in realtà c’è un altro aspetto dimenticato. Dei sette italiani presi in ostaggio all’estero, tre sono senza speranza come padre Paolo Dall’Oglio scomparso in Siria. I tre che potrebbero essere ancora vivi, in mano ai tagliagole islamici, sono nel Sahel e in Africa orientale: Silvia Romano (venduta agli Al Shabab in Somalia), padre Pierluigi Maccalli (rapito in Niger) e Luca Tacchetti (sparito con la fidanzata durante un viaggio in Burkina Faso).

LA PIOVRA JIHADISTA IN MOZAMBICO
Nella fossa comune scavata in mezzo alla terra rossiccia sono stati gettati una ventina di cadaveri. Tutti civili di uno degli sperduti villaggi della provincia di Cabo Delgado, nel nord est del Mozambico al confine con la Tanzania. Bambini con tagli profondi alla nuca come se avessero provato a decapitarli. Donne con la schiena squarciata dai fendenti di un machete. Uomini disarmati con la gola tagliata e abbandonati per farli ritrovare e seminare il terrore. Le esecuzioni jihadiste in nome dello Stato islamico sono arrivate ben più a sud del Sahel, in Mozambico. E la mattanza viene alla luce con le immagini drammatiche degli attacchi e delle vittime, che girano sui social grazie a qualche coraggioso testimone. La provincia di Cabo Delgado è off limits per i giornalisti. Il governo di Maputo ha chiuso la zona chiamando in soccorso da qualche mese 200 mercenari della Wagner, la società si sicurezza russa utilizzata spesso dal Cremlino per non sporcarsi direttamente le mani. «La situazione sta peggiorando e sfuggendo di mano. Gli insorti attaccano i centri amministrativi anche se sono protetti dall’esercito» rivela un residente a Mocimboa da Praia, cittadina all’estremo nord del Paese.

L’area è strategica per la presenza offshore di importanti giacimenti di gas naturale. L’Eni ha investito a Pemba, capoluogo provinciale sul mare, nel progetto Coral sud per l’estrazione del gas nel bacino di Rovuma, che dal 2022 dovrebbe produrre 3,4 milioni di tonnellate all’anno. Cabo Delgado, a maggioranza musulmana, ha registrato i primi attacchi di un gruppo radicale locale, Ahlu Sunnah Wal Jammah, nel 2017. La situazione è precipitata negli ultimi sei mesi quando lo Stato islamico ha rivendicato una ventina di operazioni «contro i crociati dell’esercito mozambicano». In due anni le vittime, soprattutto civili, sarebbero 600 e 90mila gli sfollati. L’ultimo agguato è del 4 gennaio, con una decina di passeggeri di un minibus massacrati, compreso un ragazzino decapitato.

Il Natale è stato di sangue con due villaggi attaccati e la popolazione fatta a pezzi con armi bianche. Il gruppo jihadista del posto è stato infiltrato da elementi tanzaniani e ugandesi, collegati alle cellule della bandiere nere in Congo. E lo scorso anno hanno giurato fedeltà al Califfato della velajat, provincia, dell’Africa centrale. Almeno 12 russi della Wagner sono stati uccisi in ottobre e novembre e all’inizio del 2019 sarebbe stato catturato uno dei sospetti leader del bubbone jihadista in Mozambico, l’ugandese Abdul Rahmin Faizal. La provincia settentrionale, infestata dai seguaci del Califfato, è un corridoio di contrabbando di droga e armi verso la Tanzania. Non bastasse, il gruppo della bandiere nere in Mozambico ha cominciato a lanciare incursioni oltre confine facendo temere per un’espansione regionale della Guerra santa.

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