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Il fallimento pesante di Cop26

Il fallimento pesante di Cop26

Nessuna data certa, molti veti da paesi che sono grandi inquinatori e temi fondamentali del tutto dimenticati. La conferenza di Glasgow è stata un flop totale


Il 2020 è stato l’anno delle grandi promesse della politica mondiale sull’ambiente. Sotto la pressione mediatica esercitata da Greta e dai Fridays for Future, i leader dei paesi occidentali sono stati costretti a spargere di retorica green i propri propositi mentre cercavano di risolvere la crisi pandemica. Le due questioni si sono accoppiate pur dando esito a risultati politici differenti.

La pandemia ha spinto i governi verso un cambio di paradigma economico che prevede un maggiore interventismo statale non soltanto dal punto di vista sanitario-emergenziale ma anche sul piano industriale e tecnologico. Nell’allargamento dei cordoni della borsa, e per legittimare la crescita ingente della spesa pubblica, sono state inserite le politiche green per fronteggiare il cambiamento climatico. Tuttavia, sul fronte ambientale c’è un importante sfasamento tra retorica e realtà. Da una parte c’è l’invocazione dialettica dell’Apocalisse dei governanti occidentali, l’adesione alla formula promossa dai movimenti ambientalisti più radicali, l’offerta di ascolto ad una nuova ideologia mentre dall’altra c’è la realtà del capitalismo e le pragmatiche esigenze della politica nazionale ed internazionale. Dove porta la strada dell’ecologismo? Per ora, con strategie simili in tutto l’Occidente, ha prodotto tassazione di attività inquinanti, incentivi per l’elettrificazione, investimenti in ricerca e sviluppo di tecnologie ecologiche, sussidi per fonti di energie alternative e rinnovabili. C’è in atto il tentativo, soprattutto in Europa, di sviluppare una transizione che per ragioni economiche e politiche non potrà essere drastica né dar corso all’ideologia apocalittica che infiamma la discussione mediatica. Questo indirizzo è stato certificato sia dal G-20 che dalla Cop-26, dove l’agenda verde delle potenze dell’Occidente è stata costretta a fare i conti con la realtà del resto del mondo.

Gli impegni solidi presi sul cambiamento climatico sono pochi, il vertice del G20 a Roma ha infatti dato poca fiducia alle grandi speranze riposte sulla Cop-26. Non c’è stato né un impegno esplicito sulla neutralità delle emissioni (carbon neutrality) dei grandi paesi entro il 2050 né una promessa di porre fine ai sussidi ai combustibili fossili, punto che era stato posto in cima alle priorità della Cop-26. Sebbene i leader del G20 si siano impegnati a fermare il finanziamento della produzione a carbone fuori dai propri confini nazionali entro quest’anno, essi non sono riusciti a raggiungere lo stesso accordo sulla produzione interna. Una situazione che lascia la porta aperta ad un reshoring degli impianti a carbone, in particolare per le economie da esso dipendenti, come la Cina e l’India, che potrebbero soffrire gravemente se attuassero una transizione energetica rapida.

Dato che l’82% delle emissioni mondiali di gas serra sono state generate dai paesi del G20, con un ingente contributo di Cina, India e Stati Uniti, i risultati della Cop-26 non possono considerarsi né un successo né tantomeno un vincolo particolarmente rilevante per le potenze mondiali. Bisogna infatti rendersi conto che i maggiori “produttori di veti” sulle questioni climatiche sono anche i maggiori inquinatori del mondo a livello di emissioni (Cina, Stati Uniti e India) o i maggiori esportatori di petrolio (Australia, Russia, Arabia Saudita). Cina e Russia hanno spinto l’obiettivo della neutralità nelle emissione di CO2 al 2060, e addirittura al 2070 nel caso dell’India. Siamo molto oltre l’obiettivo di metà secolo previsto dai lavoratori preparatori della Cop-26, una scadenza temporale ritenuta necessaria dagli scienziati per mantenere l’obiettivo di un aumento del riscaldamento globale di soli 1,5°C anziché 2°C come stabilito negli anni passati. L’Australia ha solo recentemente promesso la neutralità entro il 2050 sotto la crescente pressione degli altri governi occidentali, mentre l’Arabia Saudita ha puntato al 2060, ma senza rinunciare a mantenere il suo primato nella produzione di petrolio.

Al di là degli impegni ancora relativamente tardivi per la neutralità climatica e della mancanza di piani concreti per l’utilizzo del carbone nel mix energetico, altre due importanti questioni sembrano essere finora assenti dalla discussione. Una è la decarbonizzazione delle supply chain globali che rappresenta una grossa fetta delle emissioni di gas serra, basti pensare che otto supply chain chiave rappresentano da sole il 50% delle emissioni annuali totali. Un potenziale percorso implicherebbe filiere più verdi ma anche più corte, con una evoluzione verso una economia più regionalizzata, piuttosto che maggiormente globalizzata, con ovvie e importanti conseguenze economiche e geopolitiche. Il secondo punto mancante è una strategia per il prezzo globale del carbone. Sebbene le possibilità di una stabilizzazione globale del prezzo delle emissioni di carbonio siano in aumento, con un nuovo sistema di scambio di quote di emissioni a livello nazionale che è stato varato dalla Cina nello scorso luglio e con una proposta di uniformazione del prezzo delle emissioni di carbonio a nuovi settori in Europa, il processo è ancora lungi dall’essere completo. Oltre ad aumentare l’estensione della stabilizzazione globale, basti pensare che gli Stati Uniti sono ancora silenti dal prendere un impegno concreto sul punto, servirà la capacità politica di coordinare questi sforzi sul piano globale, per evitare la rilocalizzazione delle emissioni di carbonio in altri luoghi del globo derivante dalla diversità della regolazione e dei prezzi. Difficile da realizzare in un mondo frammentato, diseguale, percorso da tensioni e interessi geopolitici profondi, mentre appare più probabile una regionalizzazione dei mercati dei prezzi delle emissioni di carbonio nel medio periodo.

Altre due questioni, inoltre, possono spiegare il bassissimo denominatore comune raggiunto sul clima al G20. In primo luogo, la crisi energetica sempre più grave in Europa e Cina, con i prezzi dell’approvvigionamento e delle bollette in grande crescita. Un problema politico difficile da gestire e che frena la corsa delle politiche green, le quali contribuiscono inevitabilmente alla crescita della domanda. In secondo luogo, ci sono le ragioni geopolitiche alla base del fallimento della Cop-26, come mostrato chiaramente in assenza di leader chiave come Putin e Xi, la cui cooperazione è cruciale nel raggiungere una soluzione coordinata al cambiamento climatico. Il ruolo della Russia non è importante solo per il cambiamento climatico, ma anche per appianare la crisi energetica europea, visto il ruolo fondamentale di Mosca come fornitore di gas.

In breve, i progressi limitati nel vertice del G20 hanno evidenziato le difficoltà per raggiungere un consenso sul cambiamento climatico alla Cop-26. Al di là degli interessi nazionali ovviamente diversi, la crisi energetica legata alle nuove politiche economiche e allo sviluppo del green chiaramente non aiuta, così come le tensioni tra Stati Uniti e Cina. Non si può dunque comprendere il compromesso molto a ribasso della Cop-26 se non si considerano tutte le variabili che girano intorno alla questione ideologica. Grattata via la vernice ideologica e retorica della transizione green, restano in campo grandi questioni afferenti al potere geopolitico, economico e tecnologico. E come sempre questa seconda dimensione si gioca su strategie e compromessi che travalicano le novelle dei buoni propositi e le utopie movimentiste.

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