Il caos del ritiro occidentale dall’Afghanistan nell’agosto 2021 non ha soltanto segnato la fine di un ventennio di presenza militare: ha generato onde d’urto che continuano a propagarsi fino a oggi nelle capitali europee e negli Stati Uniti. L’evacuazione precipitosa, condotta tra esplosioni, disperazione e controlli improvvisati, ha aperto corridoi d’ingresso che, secondo le agenzie di sicurezza occidentali, hanno permesso il passaggio non solo di interpreti, attivisti e collaboratori, ma anche di individui vulnerabili, traumatizzati e in alcuni casi già esposti alla propaganda jihadista. È in questo contesto che va letto l’attacco avvenuto nel centro di Washington il 25 novembre 2024, quando Rahmanullah Lakanwal, un afghano arrivato negli Stati Uniti durante le ultime fasi dell’evacuazione insieme alla seconda moglie e ai cinque figli, ha aperto il fuoco contro due membri della Guardia Nazionale a poche centinaia di metri dalla Casa Bianca. Nelle ultime ore è emerso che Lakanwal, aveva prestato servizio a lungo nell’unità d’élite Nds-03, il reparto paramilitare noto come «lo Scorpione», attivo nell’area meridionale di Kandahar e operante sotto il coordinamento della Cia durante la guerra degli Stati Uniti in Afghanistan, ha affermato giovedì l’agenzia. Il presidente Donald Trump ha definito la sparatoria «terrorismo allo stato puro», ordinando una revisione completa dei flussi d’ingresso afghani avvenuti sotto l’amministrazione Biden. Questa notte Trump ha annunciato la morte del soldato dell’esercito americano Sarah Beckstrom, uno dei membri della Guardia Nazionale ferita a Washington mercoledì. “Sarah Beckstrom, una persona giovane, splendida e molto rispettata che ha iniziato il suo servizio nel giugno del 2023, è morta”, ha detto il presidente in una telefonata con i militari in occasione del giorno del Ringraziamento.
Per capire come si sia arrivati a questo punto occorre tornare al momento in cui tutto è cominciato: il 26 agosto 2021, giorno dell’attentato suicida davanti all’Abbey Gate dell’aeroporto di Kabul. Allora, mentre migliaia di civili tentavano di raggiungere gli aerei militari occidentali, un membro di ISIS-K si fece esplodere tra la folla, uccidendo 170 afghani e 13 militari statunitensi. Quell’attacco, il più sanguinoso dell’intera presenza americana in Afghanistan negli ultimi anni, non fu soltanto un atto di violenza cieca, ma un messaggio strategico: ISIS-K dimostrò di possedere uomini, capacità e soprattutto una narrativa in grado di sopravvivere al ritorno dei Talebani. Da quel momento, i servizi occidentali iniziarono a temere che la diaspora afghana potesse diventare un terreno fertile per una radicalizzazione frammentata e non controllabile.
Le settimane successive all’esplosione furono segnate da un’evacuazione frenetica. Migliaia di persone affollarono i corridoi aerei gestiti da Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Germania, Francia e altri Paesi NATO. L’obiettivo non era verificare i profili, ma portare via quante più persone possibile prima che i Talebani chiudessero definitivamente l’aeroporto. Fu in quell’ambiente di panico e compressione temporale che molti individui entrarono in Occidente senza controlli approfonditi. È tra queste traiettorie che gli apparati di sicurezza collocano oggi alcuni dei protagonisti degli attacchi successivi. Dal 2022, una serie di episodi violenti ha iniziato a emergere in diverse città occidentali. A Vienna, un afghano già condannato per reati violenti ha ucciso una giovane donna nel parco Prater, un caso in seguito collegato a una combinazione di disturbi psichiatrici e permeabilità alla propaganda jihadista. Nello stesso anno, negli Stati Uniti, un cittadino afghano trasferito nel Wisconsin con l’evacuazione del 2021 è stato arrestato per aver pianificato un attacco armato contro una fiera statale dopo aver giurato fedeltà allo Stato Islamico.
Nel 2023, l’Europa è tornata a essere teatro di violenza. A Parigi, un richiedente asilo afghano già noto ai servizi di sicurezza ha ucciso un turista tedesco e ferito altre due persone nei pressi della Torre Eiffel. Poche ore dopo l’attacco, è circolato il suo video di giuramento a ISIS-K, segno che il gruppo afghano stava riuscendo a proiettare la propria narrativa ben oltre le province orientali dell’Afghanistan. In Germania, a Essen, un giovane radicalizzato online ha tentato di colpire una chiesa durante una celebrazione cristiana, un’azione sventata grazie all’intercettazione di canali Telegram collegati alla propaganda dell’organizzazione. Nel 2024, la dinamica si è ripetuta a Siviglia, dove un ventisettenne afghano ha assaltato con un coltello tre passanti nel centro storico della città gridando frasi religiose. Anche in questo caso, nel suo telefono erano stati trovati materiali che riconducevano direttamente all’ecosistema ideologico di ISIS-K. I servizi di sicurezza spagnoli hanno parlato di «radicalizzazione autonoma favorita dalla solitudine e dall’instabilità», una formula che negli ultimi mesi è diventata quasi un mantra nei rapporti europei sul terrorismo.
Il filo rosso che collega tutti questi episodi è la natura della minaccia: non cellule strutturate né reti operative, ma individui isolati che, dopo essere giunti in Occidente tra il 2021 e il 2023, hanno trovato nei contenuti digitali di ISIS-K un linguaggio identitario, una giustificazione della violenza e una narrativa pronta all’uso. Gli analisti concordano nel ritenere che questi soggetti non ricevano ordini dal gruppo afghano, ma ne assorbano l’immaginario, trasformandosi in agenti spontanei di una radicalizzazione completamente decentralizzata. Dietro questa dinamica, spiegano i servizi europei, c’è la forza comunicativa di ISIS-K, l’unico gruppo jihadista uscito rafforzato dalla caduta di Kabul. Anche senza controllare territori vasti come lo Stato Islamico al suo apice, ISIS-K dispone oggi di una rete di propaganda capace di raggiungere i migranti afghani in Occidente con una rapidità che gli apparati di intelligence faticano a contrastare.
Il caso di Washington, avvenuto il 25 novembre 2024 e compiuto da un uomo evacuato nel 2021, chiude simbolicamente un cerchio iniziato all’Abbey Gate dell’aereoporto di Kabul più di tre anni fa. Le conseguenze del ritiro affrettato, scandite dall’esplosione del 26 agosto 2021, continuano a manifestarsi in forme imprevedibili nelle strade dell’Occidente. La maggioranza degli afghani arrivati dopo il 2021 conduce una vita pacifica e integrata, ma una minoranza infinitesimale dimostra che la minaccia non è scomparsa: si è trasformata. È passata dai campi di battaglia afghani alle capitali occidentali, portata non da eserciti, ma da lupi solitari che trovano in ISIS-K un detonatore ideologico in grado di trasformare il disagio in violenza. Il ritiro dall’Afghanistan, pensato per chiudere definitivamente un capitolo della storia americana ed europea, ha invece aperto una stagione nuova, più complessa e difficile da prevedere. Una stagione in cui il terrorismo non arriva in Occidente attraverso reti clandestine, ma attraverso le crepe lasciate da una guerra finita troppo in fretta e da un Paese abbandonato al suo destino.
