Home » Attualità » Esteri » Al Sisi contro Erdogan

Al Sisi contro Erdogan

Al Sisi contro Erdogan

Così simili nella gestione del potere, ma con obiettivi diversi e spesso in aperto conflitto. Per i presidenti di Egitto e Turchia si moltiplicano motivi e «teatri» di competizione, dagli Emirati all’Etiopia, al caos della Libia.


Il leader turco Recep Tayyip Erdogan appariva sicuro di sé e risoluto al G20 di Roma, nell’ottobre scorso. Giacca scura e cravatta rossa, ostentava un aplomb da perfetto statista. Non era stato da meno il suo grande rivale, il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi, che solo un mese prima aveva ospitato il premier israeliano Naftali Bennett in una visita storica.

Orgogliosi, i due «titani» del Medioriente hanno posato sorridenti davanti ai rispettivi vessilli… Ma nonostante la determinazione di facciata, Erdogan e Al-Sisi mostrano entrambi profonde criticità nel proprio potere. L’uno deve fronteggiare in Turchia una grave crisi economica e pandemica, l’altro deve tenere a bada molti nemici interni ed esterni. Entrambi hanno incarcerato gli avversari politici, pianificato strategie per ampliare l’influenza dei loro Paesi e si sono lanciati in progetti megalomani, come la nuova capitale a Est del Cairo o il mega canale di Istanbul.

Molti i punti in comune, dunque, come non pochi i teatri dove entrano in frizione. La Libia, il Mediterraneo orientale, l’Etiopia e non ultimo il braccio di ferro sui Fratelli musulmani. Questi ultimi sono il nemico dichiarato di Al-Sisi, mentre la loro ideologia ispira Erdogan. Gli islamisti sono al potere ad Ankara, dietro le sbarre al Cairo. Il presidente turco li usa per costruire il suo «soft power» islamista internazionale e diventare il leader incontestato del mondo musulmano.

Ma sulla questione occorre fare un passo indietro. A quando Mohammed Morsi arriva alla guida del Paese, nel 2012, e l’Egitto è il fulcro del potere temporale dell’Islam nella regione. Il Cairo riceve cospicui aiuti dal Qatar, megafono mediatico e cassaforte della Fratellanza, circa 4 miliardi di dollari. Il golpe contro Morsi nel 2013 viene facilitato da un finanziamento pari al triplo di quello qatariota proveniente da Abu Dhabi e Riyad, che hanno invece come obiettivo lo sradicamento degli «ikhuan», così vengono definiti in arabo i Fratelli.

«Il governo Morsi ha provocato un trauma nella popolazione. Molte decisioni hanno indicato che si stava procedendo a un’islamizzazione. Si temeva che l’Egitto potesse diventare come l’Iran» racconta a Panorama padre Emmanuel Pisani, direttore dell’Istituto domenicano di studi orientali al Cairo. «Le immagini della caduta di Morsi trasmesse in televisione hanno mostrato la violenza dei Fratelli. Hanno così definitivamente perso il sostegno popolare. Ma sono ancora lì. E sono temuti. Quando i talebani sono tornati al potere in Afghanistan, gli intellettuali egiziani pensavano che ciò potesse diventare una buona motivazione per riavvicinarsi al potere da parte della Fratellanza».

Anche padre Rafic Greiche, capo ufficio stampa della Chiesa cattolica egiziana, ricorda che «Erdogan è un nemico di Al-Sisi fin dai tempi della rivoluzione del 30 giugno 2013. Il suo background è l’ideologia della Fratellanza e ha cercato di mettere in pratica la sharia in Turchia». Ma sul campo le dinamiche sono ancora più complesse. La minaccia per Al-Sisi dei Fratelli musulmani «si è ridotta a causa del loro indebolimento in Arabia Saudita, Tunisia, Giordania, Marocco» dice Robert Springborg, consigliere dell’Istituto affari internazionali (Iai). «Anche in Turchia la loro presenza è stata declassata. Al-Sisi può, quindi, essere più accomodante. Inoltre, poiché le relazioni tra Egitto ed Emirati si sono deteriorate, ad Al-Sisi non conviene uno scontro frontale con Erdogan, che a sua volta ha bisogno dell’appoggio delle monarchie del Golfo, e quindi, paradossalmente, di una distensione con l’Egitto».

Nel mondo interconnesso, in particolare in Medio Oriente, la sfida tra i due autocrati travalica i confini nazionali, ed è piena di contraddizioni. I rais devono fare anche i conti con l’economia. Per esempio, la comunità imprenditoriale turca è interessata a espandere il commercio con l’Egitto. «Erdogan vuole andare oltre la dipendenza dal Qatar» chiarisce Robert Pearson, analista del Middle East Institute e già ambasciatore Usa in Turchia. «Ma le sue mosse sono puramente tattiche al fine di rafforzare la sua statura di leader musulmano regionale».

La Turchia continua ad avere una relazione privilegiata con il Qatar, dove ha aperto una base militare con 5 mila soldati, ribattezzata «il simbolo della Fratellanza». Il 2 luglio 2020 una «photo opportunity» di Erdogan con l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani ha suggellato di nuovo il patto. Il Sultano e lo Sceicco: un’immagine idilliaca che non può nascondere del tutto i problemi che aumentano. Per il presidente turco, come accennato, il fronte interno si sta surriscaldando. L’insofferenza dei turchi nei confronti delle scelte in economia è palpabile. Elif, 45 anni, architetto, ha le idee chiare: «Prima della pandemia e della crisi circolava più denaro. Erdogan pensa soltanto a consolidare il suo potere».

Proviamo poi a contattare una scrittrice turca, di cui non sveliamo il nome per motivi di sicurezza. Ci risponde al telefono, ma interrompe subito la conversazione e con voce sottile chiosa: «Mi scusi ma se rispondessi alle sue domande finirei dritta in prigione». La situazione economica in Egitto, anche grazie ai massicci aiuti dal Golfo, è al momento più stabile, pur avendo Al-Sisi ed Erdogan interessi che si sovrappongono (e potenzialmente confliggono), per quanto riguarda il gas nel Mediterraneo orientale.

Qui il presidente egiziano è alleato con la Francia in funzione antiturca ma con un forte «fattore Italia». Roma gradirebbe infatti un allentamento delle tensioni soprattutto per il ruolo di Eni nei giacimenti offshore di Cipro, Egitto e Libia. Ankara aspira a entrare nella partita e alterna minacce a offerte. I due leader-padrini, poi, si sono fronteggiati sulla «Grande diga della rinascita etiope». Erdogan sostiene Addis Abeba cui ha venduto droni utilizzati contro i ribelli tigrini e Abu Dhabi si è schierata con Il Cairo.
Anche in tal caso, la presenza italiana è rilevante con l’attività dell’azienda Webuild, che sta costruendo la mega struttura. Non solo. Il nostro Paese, in quest’area complicata, partecipa alla missione europea Atalanta nel Corno d’Africa e ha la base di supporto «Amedeo Guillet» nella zona Gibuti.

Ma il terreno di scontro più importante resta la Libia. Qui Erdogan è difensore del governo di Tripoli dell’ex premier Fayez al-Sarraj, ora sostituito da Abdulhamid Dbeibah. Al-Sisi appoggia il maresciallo Khalifa Haftar in Cirenaica. Il 14 settembre 2021 Al-Sisi ha ricevuto al Cairo proprio Haftar e il presidente del parlamento di Tobruk Aguila Saleh Issa. «L’intervento della Turchia in Libia ha avuto un discreto successo, ma Erdogan non è riuscito a tradurlo in guadagni sostanziali» fa notare Springborg. «Il governo di Tripoli deve condividere il potere non solo con Bengasi, ma con varie altre forze, tra cui il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, e i suoi sostenitori. Quindi non può fornire al presidente turco alcuna ricompensa, come l’accesso al Mediterraneo orientale e ai giacimenti libici di petrolio e gas offshore».

E l’Italia? Roma è tra i governi europei più vicini a Tripoli. La Libia però è diventato un territorio di scontro tra Stati arabi e tra Russia e Turchia che hanno sfruttato gli errori delle altre potenze. Prima della rivoluzione 2011, operavano in Libia oltre 100 aziende italiane tra cui l’Eni. In ballo c’è anche la gara d’appalto per il nuovo aeroporto di Tripoli vinta nel 2017 dal consorzio italiano Aeneas. Non ultimo, dà preoccupazioni il dossier migratorio con decine di migliaia di arrivi in Sicilia dalle coste libiche. Il 2022 sarà un anno cruciale per questo Paese.

Erdogan e Al-Sisi giocano infine anche una partita sulla Siria. Qui la presenza di Ankara e i suoi interessi con Iran e Russia sta spingendo il presidente turco a migliorare le relazioni con molti Stati arabi, Egitto incluso. La Realpolitik fa strani scherzi. «Sì, la tattica è attualmente l’essenza della politica nella regione» conclude Springborg. «E ci sono sempre meno alleanze strategiche e consolidate». Ecco perché lo scontro tra i due titani del Medio Oriente è più che mai aperto.

© Riproduzione Riservata