Home » Ermal Meta: «In assenza di contatto volo con la fantasia e scrivo canzoni»

Ermal Meta: «In assenza di contatto volo con la fantasia e scrivo canzoni»

Ermal Meta: «In assenza di contatto volo 
con la fantasia e scrivo canzoni»

«In Albania, il regime comunista mandava in galera chi seguiva i programmi televisivi occidentali, come il Festival di Sanremo» racconta il plupremiato musicista. Oggi, in attesa di tornare sul palcoscenico («ho bisogno di umanità»), presenta il suo ultimo album, Tribù urbana: una riflessione sul futuro che ci aspetta.


Sa raccontare come pochi le emozioni e la vita, Ermal Meta, 39 anni, una carriera fatta di decine di brani, scritti per se stesso e per altri (Francesco Renga, Patty Pravo, Marco Mengoni) e centinaia di concerti ad alto tasso di adrenalina. Esibizioni forti, che da più un anno gli mancano come l’aria. «Ho in programma una serie di date dal 2 al 20 dicembre e spero con ogni cellula del mio corpo di salire sul palco» racconta.

Nell’attesa del ritorno in scena, ha trasformato la genesi del suo ultimo lavoro, Tribù urbana, in un live immaginario con un unico spettatore: «Per realizzare questo album mi sono abbandonato a un volo di fantasia. Ho fatto finta di essere in mezzo a una platea, ascoltando questi brani dal vivo cantati da qualcun altro. Ho voluto calarmi nei panni di chi in genere si trova di fronte a me. Così, ogni volta che provavo una nuova canzone, lo facevo a un volume esagerato, come quello che ti travolge quando sei davanti a un palcoscenico».

Un volo pindarico per colmare l’assenza del contatto diretto con il pubblico: «Per un artista esibirsi è sinonimo di libertà, per me è un’esperienza fisica eccitante quanto devastante: alla fine dello spettacolo sono distrutto, svuotato di energia. E quella mancanza di forze diventa pace, perché ho dato tutto a ciò che amo di più: la musica».

C’è tanto Sanremo nella storia di Ermal (il suo nome in albanese significa «vento di montagna»): un premio della critica nel 2017, la vittoria tra i big in coppia con Fabrizio Moro nel 2018 e il terzo posto nell’ultima edizione con Un milione di cose da dirti: «Dio mi ha dato molto più di quello che ho chiesto. Se qualcuno 20 anni fa mi avesse detto che avrei vinto Sanremo, gli avrei consigliato di farsi curare da uno bravo…» scherza. La sua vita cambiò per sempre a 13 anni, quando lasciò l’Albania con mamma e sorella per trasferirsi a Bari. Con un normale traghetto e non su un barcone, come è stato spesso erroneamente raccontato.

«Il Festival ho iniziato a seguirlo da spettatore in Italia, a casa mia era impossibile. Il regime comunista non tollerava che qualcuno seguisse i programmi di un Paese occidentale. Conosco persone che sono andate in galera solo per aver guardato Raiuno. Nelle città di mare, come Valona o Durazzo, la Rai si riusciva a vedere. Bastava avere un’antenna un po’ più alta delle altre. Ma la polizia controllava anche le antenne, se ne notava una che spiccava sulle altre veniva a casa, ti chiedeva spiegazioni e poi te la faceva rimuovere. Credo che in Albania il comunismo abbia raggiunto livelli di ferocia superiori a quelli di Cina e Russia» afferma.

Orrendi gli anni del regime, ma anche quelli del caos successivi alla caduta del comunismo. «Ce ne siamo andati perché avevamo paura. Non è stato facile, perché in fondo nessuno abbandona volentieri la propria terra, bella o brutta che sia. Quando lasci le tue impronte dove sei nato, assomigli a quel posto e lo amerai per sempre. Detto questo, ringrazio Dio ogni giorno perché io e i miei cari ce l’abbiamo fatta» sottolinea.

Sa leggere il presente e fotografare l’istante nei tre, quattro minuti di un brano Ermal Meta, capace di trasformare un incontro casuale a Los Angeles in un affresco sonoro che racconta la vita degli invisibili: «Lo spunto è stato un homeless che cantava e suonava per strada. Usava un filo di voce tanto che mi sono avvicinato chiedendogli perché non alzasse un po’ il volume di quel che usciva dalle sue corde vocali. Mi ha risposto in modo brusco: “per me questo volume è sufficiente: io mi sento perfettamente”. Un modo per dire che cantava solo per se stesso, che non voleva essere ascoltato dagli altri, anzi preferiva essere invisibile» spiega.

Poi continua, entrando nelle pieghe di No satisfatcion, uno dei brani simbolo di Tribù urbana. «È una riflessione su quello che tutti noi stiamo diventando, con l’evidente rischio che la modernità ci sfugga di mano. Mi spaventa il pensiero di un futuro non così lontano in cui saremo noi a diventare estensioni umane delle macchine e non le macchine estensioni digitali degli esseri umani. L’altro pericolo è il fiume di odio che viene riversato sui social. Ne ho fatto le spese anch’io nella settimana del Festival di Sanremo. In questi casi va in scena una sorta di lapidazione verbale, che trasforma drammaticamente le persone più fragili in vittime del cyber bullismo. Tanto che, nei casi più estremi, c’è anche chi non ce la fa a sopportare e decide di togliersi la vita…».

© Riproduzione Riservata