Durante i picchi di Covid la macchina pubblica si è mostrata iper invasiva. Azzeccando qualcosa e compiendo molti errori, tra i quali spingere il piede sull’acceleratore dell’inflazione. Oggi che si tratta di proteggere l’industria dalla transizione ecologia e dalla concorrenza di Paesi che hanno compiuto scelte strategiche a Roma, nessuno si prende responsabilità.
I governi italiani sono stati molto solerti nel varare le norme per contenere la pandemia. Spesso questa produzione fluviale di regole ha portato a contraddizioni, errori, irrazionalità, deroghe. Tuttavia, lo Stato si è dato molto da fare sia nei risultati positivi che in quelli negativi per regolare e disciplinare la vita dei cittadini. Lo stato d’emergenza e il Recovery plan hanno dato nuova forza al settore pubblico sia come regolatore e controllore che come esecutore di politiche pubbliche. Si sono aperte opportunità di bilancio per assumere in pochi anni centinaia di migliaia di persone nella pubblica amministrazione, mentre nuovo debito e investimenti europei stanno passando attraverso la catena amministrativa per riversarsi nelle infrastrutture, nei servizi e nel welfare italiano. La Ragion di Stato ha imposto tutto questo, sia nell’Unione europea, dove si è abbandonato il paradigma dell’austerity, che in Italia dove dopo anni si è tornati ad allargare in modo massiccio il perimetro dell’intervento statale. Gli ultimi mesi hanno mostrato come gli stimoli fiscali, i lockdown, la transizione ecologica hanno un costo economico. Nessun pasto è gratis. E infatti l’inflazione è tornata a salire dopo tre decenni di deflazione, colpendo soprattutto il settore dell’energia. La crescita dei prezzi delle materie prime ha cause geopolitiche, economiche e infrastrutturali.
Naturalmente c’è anche una spiegazione di dottrina politica: un fiume di denaro pubblico riversato nella vita economica produce una crescita squilibrata. Se da un lato sostiene la domanda e i consumi, dall’altro determina un aumento dei prezzi. Se a questo si affianca una transizione green imposta a tappe forzate dagli Stati, senza calcolare gli impatti sull’energia, si produce un cocktail potenzialmente micidiale. A fare le spese di questa velenosa pozione non solo soltanto le attività del terziario – che pure in un paese turistico hanno il loro grande peso – ma anche quel pezzo più pregiato e robusto dell’economia italiana, cioè le imprese esportatrici. Contrazione di margini e investimenti quando va bene, chiusura e disoccupazione quando va male. Questi sono gli effetti di un rincaro prolungato dell’energia e dell’aumento dei costi della logistica. Chi sopravvive alza i prezzi che erodono i salari degli altri cittadini. Nel frattempo altri Paesi concorrenti delle nostre aziende, come la Francia, hanno bloccato il rincaro delle bollette (prezzi non oltre il +4%, del resto si fa carico lo Stato). L’effetto è una asimmetria a sfavore degli imprenditori italiani che sono costretti a pagare di più rispetto ai loro concorrenti europei e globali. A questo punto si può obiettare che l’inflazione energetica dipenda da fattori esogeni, che non sono nella disponibilità del governo e che poco questo possa fare. Ciò è in parte vero poiché l’esecutivo non può certo plasmare il mercato.
Tuttavia, lo Stato può fare lo Stato, dunque intervenire prontamente, proprio come non ha esitato a fare durante la pandemia tra lockdown, obblighi e green pass. La nuova pandemia si chiama crisi energetica. Che fare, dunque? Primo, prendere consapevolezza che siamo di fronte ad una inflazione delle materie prime strutturale e adeguare di conseguenza i cordoni della borsa. L’industria italiana va protetta da crisi e fallimenti causati dall’aumento dei prezzi energetici. Con sussidi o con sgravi fiscali l’industria va sostenuta, pena la tenuta dell’intero Paese. Non è un capriccio corporativo, ma una questione di ragion di Stato. Secondo, strutturare partnership commerciali con il nord africa al fine di diversificare ulteriormente l’approvvigionamento energetico. Terzo, a livello europeo lavorare per mitigare le politiche green che aggravano la crisi energetica. La transizione deve essere graduale, non si può rinunciare a petrolio, gas e carbone e pretendere di elettrificare totalmente il continente fino a quando le energie pulite non saranno in grado di sostituirle del tutto. L’industria non può morire per scelte politiche dirigiste e di pianificazione ispirate dall’ideologia e dall’allarmismo strumentale. L’alternativa è un paese più povero, colmo di malessere sociale e senza alcun capitale di fiducia diffusa.
