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L’ambizione atomica dell’Arabia Saudita

L’ambizione atomica dell’Arabia Saudita

Riad punta sul nucleare. La sua economia è troppo sbilanciata sul commercio del petrolio, così attraverso accordi con Paesi «scomodi» (come la Cina), cerca di dotarsi delle tecnologie per ricavare uranio e sviluppare potenti alternative energetiche. Ma anche armi che possano contrastare l’arcinemico Iran, ora vicino alla bomba definitiva.


Ormai Riad ne è certa: senza un’alternativa alle risorse energetiche fossili l’Arabia Saudita e l’intero Golfo Persico sono perduti. È per questo che il principe ereditario Mohammed bin Salman e il suo ministro dell’Energia Abdulaziz bin Salman Al Saud stanno tessendo una doppia strategia. Una che punta, da un lato, ad accordi internazionali per dotarsi del know how tecnologico finalizzato ad agganciare la corsa verso la produzione di energia nucleare «pulita», dall’altro per rendersi indipendenti dagli altri Paesi nel reperimento dei minerali indispensabili al funzionamento del nucleare contemporaneo, ossia banalmente l’uranio.

Anche se le monarchie del Golfo ancora oggi stanno raccogliendo profitti impressionanti dal settore energetico (il Kuwait prevede entrate petrolifere per 16,7 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2022-23, mentre l’Arabia è a quota 298 miliardi di dollari e vanta una crescita del Pil su base annua dell’8,6 per cento nel terzo trimestre del 2022, grazie proprio alla forte crescita delle entrate petrolifere), nondimeno esse sono consapevoli di non poter fare affidamento sugli alti prezzi del petrolio a lungo termine.

Invece, devono preparare i loro sistemi politici ed economici per l’incombente transizione globale dalle fonti di energia basate sul carbonio. In tutta la pianificazione della transizione energetica che ha avuto luogo nel Golfo negli ultimi anni (vedi il progetto Vision 2030 di Bin Salman), l’opzione nucleare aveva ricevuto sinora poca attenzione e scarsa concretizzazione. E questo nonostante la Saudi Green Initiative – che mira ad aumentare la dipendenza dalle rinnovabili, compensando l’impatto dei combustibili fossili – preveda che la quota di energia pulita nella produzione energetica nell’Arabia Saudita passi dallo 0,3 al 50 per cento in meno di 10 anni. Ma dopo che studi sul campo hanno mostrato come la penisola possegga promettenti risorse di uranio nel proprio sottosuolo – è emerso al Future Minerals Forum tenutosi a Riad lo scorso gennaio – il Regno dei Saud ha iniziato a investire pesantemente nell’industria mineraria estrattiva, per un valore di circa 1,33 trilioni di dollari. A conferma che un nucleare saudita è possibile.

Da qui l’annuncio del governo di costruire 16 reattori nucleari, per un investimento totale di 80 miliardi di dollari. Già nel 2022 le entrate minerarie sono salite del 27 per cento e il governo ha iniziato a concedere a dozzine le licenze di esplorazione, anche alle società straniere. La ragione appare evidente: è ancora il know how che manca al Regno. Complessivamente, in questo modo Riad intende raccogliere 32 miliardi di dollari d’investimenti nel settore, ossia oltre un terzo del necessario.

E a chi si è rivolto per primo Bin Salman? Non agli americani, né certamente ai vicini di casa. Già nel 2020 il Wall Street Journal citava un report nel quale si affermava che l’Arabia Saudita, con il sostegno cinese, si stava adoperando per costruire un nuovo impianto di lavorazione dell’uranio allo scopo di migliorare la sua ricerca di tecnologia nucleare. Il quotidiano citava un rapporto dell’intelligence, che affermava come «un impianto vicino ad Al Ula dovrebbe essere utilizzato per produrre uranio concentrato, noto come “yellowcake”, dal minerale estratto. Lo sviluppo riportato arriva dopo che i funzionari statunitensi e sauditi non sono stati in grado di concordare i termini di un accordo di cooperazione nucleare per sostenere i piani sauditi per lo sviluppo dell’energia nucleare».

Il ministero dell’Energia saudita all’epoca negò categoricamente l’esistenza di una tale struttura in quella località, così come gli accordi in essere la Cina. Ma oggi l’attualità sembra dare ragione agli americani: il che potrebbe significare un reale progresso saudita verso un programma di arricchimento dell’uranio indigeno, poiché la produzione di yellowcake è un passo fondamentale nella raffinazione dell’uranio per usi civili. Ma anche militari. Ed è in questo senso che vanno lette le preoccupazioni e i dubbi di Washington, nonostante Riad resti un importante e strategico alleato. Sebbene tutti i Paesi abbiano il diritto di sviluppare programmi di energia nucleare secondo il Trattato di non proliferazione nucleare, il timore è che Riad si doti sì di energia elettrica da questa fonte, ma anche della «bomba». Né più e né meno come sta facendo il suo più grande e temuto competitor, ovvero l’Iran. Inoltre, rivolgendosi alla Cina, i sauditi si sono messi in una posizione ostile secondo la dottrina Usa, che non tollera simili «defezioni».

Il trattato citato comporta il rispetto di rigide normative internazionali sul trasferimento di tecnologia nucleare, applicate dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e dalla Commissione di regolamentazione nucleare degli Stati Uniti. Ma è facile trovare scappatoie e giustificarle con la necessità di difendersi da chi, come Teheran, minaccia ogni giorno la sicurezza nazionale saudita. Lo scorso 24 febbraio per esempio, il quotidiano Nour News, collegato al Consiglio supremo per la sicurezza nazionale dell’Iran e supervisionato dal leader supremo Ayatollah Ali Khamenei, ha affermato che per la prima volta Teheran ha arricchito l’uranio all’84 per cento di purezza, fatto che avvicinerebbe più che mai la Repubblica islamica all’arma nucleare.

L’Aiea ha confermato che tale percentuale è stata raggiunta presso l’impianto sotterraneo di Fordow, secondo quanto riferito il 19 febbraio da Bloomberg. Questo grado di purezza non soltanto segna il più alto livello raggiunto dalla Repubblica islamica (anche se l’esatta quantità di uranio arricchito in possesso dell’Iran resta sconosciuta), ma apre a scenari inquietanti. A tal proposito, vale la pena rileggere le dichiarazioni rilasciate già nel 2018 dal principe ereditario saudita, quando il futuro leader della nazione affermò che il suo Paese avrebbe potuto «sviluppare armi nucleari in risposta al programma nucleare iraniano». Attualmente, sono gli Emirati Arabi Uniti l’unico Stato del Golfo a gestire una centrale nucleare: Barakah è entrata in funzione a metà del 2020 e già veleggia verso quota 20 per cento del fabbisogno energetico interno emiratino. Ma Dubai non ha da temere né l’Iran né altri nemici, essendosi sempre distinta quale «Svizzera» del Medioriente e non avendo velleità militariste. Lo stesso non può dirsi per Riad, il cui peso politico è fortemente sbilanciato e la cui centralità religiosa per l’Islam sunnita mondiale ne fanno un punto di forza ma anche di attrito con le forze antagoniste sciite, che trovano in Teheran il loro centro propulsore.

«È molto probabile che l’Arabia Saudita porti avanti il suo piano nucleare con il supporto di attori esterni» afferma lo studioso Bayly Winder, membro dell’organizzazione no profit National Endowment for Democracy e Senior Associate della startup satellitare E-Space. «Per questo ha avviato una procedura di gara per la sua prima centrale nucleare con diverse parti interessate, tra cui Corea del Sud, Cina, Russia e Francia. Anche i governi saudita e americano stanno lavorando a un quadro di partenariato per lo sviluppo di energia pulita». Come a dire, vinca il migliore.

Se dunque Washington ha ragione di temere che i progetti sauditi legati allo sviluppo nucleare siano mossi da una volontà di rispondere a quanto stanno facendo il nemico iraniano e il vicino Israele, la transizione verso l’atono resta un passaggio inevitabile per un Paese la cui fortuna siede su una mono-economia basata su un commercio, quello degli idrocarburi, che un giorno non lontano potrebbe diventare del tutto obsoleto.

Secondo Dan Yurman del blog Neutron Bytes, Riad in realtà nel prossimo decennio riuscirà forse a far funzionare due centrali nucleari da 1.400 megawatt, uno sforzo assai ridotto rispetto all’ambizioso obiettivo delle 16 unità previste, né al momento è chiaro dove verrebbero realizzati gli impianti. In ogni caso, ufficialmente Riad punta ancora a disporre di circa 17 gigawatt di energia nucleare dopo il 2040. Certamente, l’alba di una nuova epoca.

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