Il prossimo 28 maggio è una data da cerchiare col rosso sul calendario della politica internazionale, perché in quel giorno si deciderà il futuro della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. E, di conseguenza, anche di parte della geopolitica mediterranea. L’appuntamento elettorale più importante dopo un ventennio sotto la guida del leader (sinora) indiscusso, potrà infatti confermare il presidente «a vita» al Palazzo Bianco di Ankara o sancire il tramonto del suo lungo e travagliato regno.
A scrutinio completato del primo turno, infatti, il presidente Erdogan si è fermato al 49,4% mentre il suo sfidante, Kemal Kilicdaroglu, ha ottenuto il 45%. Non essedo stata raggiunta quota 50% da nessuno dei contendenti, si va dunque al ballottaggio. Ed è già questo un segno dei tempi, con lo strapotere del leader turco insidiato per la prima volta da un crescendo di opposizioni, che sono riuscite a saldarsi intorno alla figura di un leader moderato di estrazione laica. Kilicdaroglu, 74 anni, è un funzionario di Stato che promette la «normalizzazione» della Turchia, e incarna quanti si oppongono al crescendo di islamismo conservatore e alla deriva autoritaria degli ultimi anni, che ormai mal si conciliano con la grave crisi finanziaria che adombra l’orizzonte economico turco.
Probabilmente anche per questo motivo l’affluenza alle elezioni presidenziali in Turchia ha sfiorato il 90% (88,29%), mentre alle elezioni parlamentari ha votato l’85,26% degli aventi diritto. Segno che i turchi sentono che stavolta si è davvero di fronte a un appuntamento con la storia, e tutti vogliono esserne protagonisti.
Secondo i dati forniti dall’agenzia Anadolu, la coalizione che appoggia Erdogan – composta dal «suo» Akp e dai nazionalisti dell’Mhp – si sarebbe comunque già assicurata la maggioranza in parlamento, con 320 seggi su 600: in particolare, l’Akp avrebbe ottenuto 268 seggi, confermandosi il partito più votato con il 36% dei consensi, mentre l’Mhp ne conquista 52 con il 10,5%. Sull’altro versante, il Partito repubblicano del popolo (Chp) di Kilicdaroglu, ha ottenuto il 24,7%, pari a 168 seggi: a questi vanno sommati i 46 seggi del Buon Partito (Iyi Party) al 10%; altri 59 del Partito della Sinistra Verde, al 9,7% e almeno 5 del Partito del Welfare. In totale, 278 seggi, insufficienti ad assicurare all’opposizione il potere legislativo.
È ovvio, però, che se lo sfidante Kilicdaroglu dovesse vincere al ballottaggio, il nuovo governo e il suo presidente potrebbero negoziare da un punto di forza le leggi da scrivere nella Grande Assemblea Nazionale, l’organo unicamerale della Repubblica di Turchia. Anche perché la costituzione ratificata nel 1982 è stata modificata più e più volte, proprio per dare sempre maggiori poteri alla presidenza: l’ultima modifica è avvenuta nel 2016, quando Erdogan ha preteso di riscrivere ben 113 dei 177 articoli della Carta turca.
Adesso, il capo dello Stato ha l’autorità di proporre leggi e respingere quelle parlamentari; ha eliminato la figura del premier e del consiglio dei ministri; può proporre la sospensione o la limitazione di diritti civili e libertà fondamentali; ma soprattutto, nomina e destituisce tutte le cariche governative e dei funzionari di Stato, compresi 12 dei 15 membri della Corte costituzionale e di 5 dei 12 giudici del Consiglio Superiore della Magistratura (gli altri sono nominati in maggioranza dal parlamento). Il che ha tolto il velo alla volontà sempre più manifesta del presidente Erdogan di fare della Turchia un suo sultanato personale, con poteri che gli garantiscono l’ultima parola anche in materia di giustizia. Fatto che ha apparentemente risvegliato le coscienze della società turca e mobilitato le forze più democratiche del Paese per impedire che questo scenario prosegua per altri cinque anni almeno.
A tal proposito, durante lo spoglio non sono mancate le polemiche e le denunce di manipolazioni, con l’opposizione che ha accusato direttamente l’agenzia stampa di Stato Anadolu di comunicare i risultati in maniera da far apparire Erdogan saldamente in vantaggio, ritardando il conteggio dei voti che provenivano dalle aree favorevoli a Kilicdaroglu. In rete, girano anche video che dimostrerebbero brogli elettorali da parte del governo: come nella provincia di Sanliurfa, dove apparentemente il capo di un villaggio vota a nome di tutti gli aventi diritto, segnando personalmente decine di schede elettorali in favore di Erdogan.
Simili scene sono stare riportate anche in altre parti del Paese, ma non hanno comunque impedito ai sostenitori di Kilicdaroglu di raggiungere un risultato storico, e di poter parlare di una «volontà di cambiamento nella società superiore al 50%», come ha commentato lo stesso Kilicdaroglu. Il quale ha suonato la carica ai suoi, affermando: «Se la nostra nazione dice secondo turno, vinceremo assolutamente il secondo turno». E ha poi aggiunto: «Dobbiamo assolutamente vincere e instaurare la democrazia in questo Paese».
Che il tema della «democrazia mancata» sia preponderante in Turchia e che la società turca sia ormai fortemente polarizzata tra due visioni diverse di futuro, lo si arguisce anche dalle scelte simboliche dei due contendenti prima dell’inizio delle votazioni: Kilicdaroglu ha voluto concludere la sua campagna elettorale con una visita al mausoleo del fondatore della moderna repubblica turca, Kemal Ataturk.
Il presidente Erdogan ha invece scelto di fare una dichiarazione molto simbolica alla sua base di conservatori e nazionalisti, riunendoli all’ombra della Basilica di Santa Sofia a Istanbul, da lui trasformata in moschea nel 2020 sfidando le critiche internazionali. Sotto gli ottomani, l’ex cattedrale cristiana ortodossa era già stata una moschea, ma Ataturk l’aveva voluta trasformare appositamente in un museo, simbolo di una società nuova, laica e repubblicana, per manifestare il cambiamento radicale dai tempi dell’Impero ottomano.
Il gesto di Erdogan è figlio della sua visione: una Turchia islamica che guarda alla conservazione e alla leadership personale (e familistica) come espressione della volontà popolare, non filtrata da contrappesi reali. Che è proprio ciò che milioni di turchi non desiderano più, preferendo un potere distribuito sul modello europeo, anziché un decisionismo e un dirigismo di Stato che – come Erdogan ha dimostrato – orienta la macchina statale sulla visione di un solo uomo, esponendola anche a livello internazionale. Questo, anzitutto, rende tutt’altro che certo il risultato del secondo turno. Ma dimostra anche come la democrazia turca sia tutt’altro che soffocata.
