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Stipendi al minimo? Colpa del welfare

Stipendi al minimo? Colpa del welfare

Dall’opposizione si invoca una retribuzione decisa «per legge». Ma il vero problema dell’Italia è quello del mancato aumento di produttività – siamo tra gli ultimi in Europa – che permetterebbe anche stipendi più alti. La causa? La deriva assistenziale del nostro welfare.


Si sente ancora l’eco delle urla in Parlamento quando la Camera ha bocciato la proposta di legge dell’opposizione sul salario minimo. Deputati del Pd e dei Cinque stelle hanno inalberato cartelli con la scritta «Non in mio nome», la segretaria dei Dem Elly Schlein ha accusato il governo di avercela con i poveri e il presidente del Consiglio Giorgia Meloni di avercela con il sindacato esortato da lei a «fare autocritica». Giuseppe Conte primo firmatario della legge a nome dei pentastellati riscopre il fascino della barricata e tuona: «La presidente Meloni e il governo hanno gettato la maschera. La maggioranza ha voltato le spalle a 3,6 milioni di lavoratrici e lavoratori». La colpa? Aver approvato una legge delega per superare e cancellare la proposta di salario minimo da fissare a 9 euro l’ora (lordi) introducendo l’idea dell’equo compenso, stimolare il rinnovo dei contratti nazionali e contrastare il dumping salariale, con la sua drammatica gara al ribasso.

Maurizio Landini, segretario della Cgil insiste: «Sì al salario minimo ma non da solo». Poi qualcuno fa i conti e scopre che la Cgil ha firmato diversi contratti nazionali ben al di sotto dei 9 euro l’ora lordi: gli addetti alla vigilanza privata e servizi fiduciari hanno stipendi da 5 euro l’ora. Nell’industria delle calzature si parte da a 7,9 euro; sulle navi e i traghetti la paga base è calcolata a partire da 7,6 euro; in vetreria il minimo sindacale sono 7,1 euro l’ora; nei campi e nei vivai si parte da 7 euro e chi si occupa di tenere pulite case e uffici non prende più di 8,1 euro. Tutti contratti nazionali firmati dai maggiori sindacati. Così la bagarre parlamentare del 6 e 7 dicembre perde forza e vigore. Passa giusto una settimana e l’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche guidato da Sebastiano Fadda, presenta il suo Rapporto da cui si evince che tra il 1991 e il 2022 i salari in Italia sono cresciuti dell’1 per cento contro un aumento della media dei Paesi Ocse del più 32,5 per cento. Siamo passati dal salario minimo al «salario al minimo» nel volgere di una settimana.

Nonostante gli sforzi di Fadda per suscitare un dibattito sui dati presentati, il silenzio è stato perfetto. Eppure si dà una grossa mano ai sostenitori del salario minimo affermando: a questo punto ci vuole. Anche perché, secondo lo studio dell’Inapp, si registra una crescente erosione dell’incidenza del monte salari sul Pil e, al contrario, un balzo dei profitti (il rapporto è 40 a 60). Se ne conclude, sostiene Fadda, che è evidente un crollo della produttività, che è venuta meno la capacità contrattuale del sindacato e che negli ultimi anni, anche in forza della fiammata inflazionista, aumentando il lavoro povero, non c’è una spinta a cercarsi un’occupazione con il rischio che le imprese non trovino più manodopera. Una spia della disaffezione all’occupazione degli italiani – aumentata dopo il periodo Covid in chi non ha potuto fare il lavoro da casa – a causa dei salari troppo bassi è la spinta alle dimissioni volontarie. Sempre l’Inapp ipotizza almeno 3,3 milioni di italiani – all’incirca il 14,6 per cento degli occupati – che sarebbero pronti a dimettersi e che sono alla ricerca di fonti di reddito alternative per poter lasciare il posto fisso.

Ma basta la spiegazione offerta da questo Rapporto a dare ragione sul perché gli italiani, a fronte di una caduta verticale del salari, hanno continuato a risparmiare, a consumare, a comprare case? E soprattutto perché Maurizio Landini, come gli altri leader sindacali, non affronta il tema della diminuita capacità contrattuale? Mentre sul salario minimo si è molto gridato sui «salari al minimo» si è poco riflettuto. A cominciare dallo stesso Giuseppe Conte che ha affidato a Pasquale Tridico, ex presidente dell’Inps ora in attesa di candidarsi alle Europee, l’arduo compito di sconfiggere la povertà col reddito di cittadinanza. Al 4 agosto il reddito era costato 33,5 miliardi di euro.

Secondo i conti dell’Inps ogni posto di lavoro attivato è costato 21 milioni di euro. Vincenzo Caridi, dal 2022 direttore generale Inps, afferma: «Le agevolazioni all’assunzione dei percettori non hanno superato i 1.500 contratti dal 2019 a oggi». Le spese assistenziali e previdenziali hanno sostituito i mancati aumenti salariali? Una risposta viene da Itinerari previdenziali il centro studi guidato dal professor Alberto Brambilla. Nell’analisi a cura di Mara Guarino si legge: «È sempre più difficile da sostenere per il Paese il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale: dal 2008, quando ammontava a 73 miliardi, l’incremento è stato di oltre 71 miliardi, con un tasso di crescita annuo di oltre il 6 per cento, addirittura di 3 volte superiore a quello della spesa per pensioni, comunque sostenute da contributi di scopo. Il tutto mentre, secondo i dati Istat, cresce il numero di persone in povertà». Ecco un primo elemento che spiega il crollo della produttività: le risorse dell’Italia sono dirottate a garantire assistenza.

A questo punto soccorre la statistica di lungo periodo che il Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica del ministero dell’Economia condensa in alcuni grafici. Un primo dato interessante è il confronto tra la produzione industriale in Italia e nella zona euro a 19. Si nota come dal 1992 a 2000 la produzione italiana sia maggiore; ma al cambio di millennio esaurite gran parte delle privatizzazioni volute da Mario Draghi, attuate da Romano Prodi per agganciare l’euro, c’è il sorpasso con una forbice che si dilata anno dopo anno sino a toccare nel 2023 i 30 punti di distacco tra l’Italia e l’Eurozona. Emblematica è la storia dell’ex Ilva di Taranto (spiega anche perché gli investimenti in Italia siano passati dal 22,5 per cento del Pil nel 2007 al 17 nel 2014 per risalire al 21,8 nel 2022) che nonostante la privatizzazione ha bruciato in dieci anni 23 miliardi (quasi un punto e mezzo di Pil) e dove si sono persi ottomila posti di lavoro quasi tutti scaricati sull’Inps per arrivare all’incertezza di questi mesi con continue proteste dei 4.500 lavoratori rimasti. Altro grafico esplicativo di come sono andate le cose in Italia è quello che fa vedere l’andamento netto della spesa pubblica, dunque interessi sul debito esclusi, che mostra come dal 1990 al 2008 si sia mantenuta sotto il 40 per cento in rapporto al Pil per poi esplodere fino al 48 per cento del Pil a ridosso del 2022. Rilevante è anche l’andamento degli stipendi nella pubblica amministrazione raffrontato alla spesa previdenziale. Nel 1990 la spesa di queste retribuzioni era pari al 12 per cento del Pil, mentre quella per le prestazioni previdenziali e sociali era pari al 14,2 per cento. Nel 2022 gli stipendi hanno pesato per il 9,8 per cento del Pil, la spesa previdenziale-assistenziale per il 21,8 per cento.

Ma è l’ultimo grafico del ministero dell’Economia il più significativo di tutti. Atteso che nel 1994 è avvenuto un nefasto sorpasso – con la spesa pubblica che ha superato l’incasso fiscale cominciando a gonfiare il debito – nel 2006, presidente del Consiglio Romano Prodi, il reddito medio degli italiani pari a 28 mila euro annui viene sorpassato dal reddito medio dei cittadini dell’Eurozona. Nel 2014, con presidente del Consiglio Matteo Renzi, il reddito degli italiani precipitato l’anno prima con Enrico Letta a palazzo Chigi a 25.500 euro va definitivamente sotto la media europea complessiva. Arduo risalire solo col salario minimo.

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