La «Belt & Road initiative» nasconde in realtà enormi rischi economici: il progetto imperiale di Xi Jinping, dice uno studio americano, ha lasciato decine di Paesi a basso reddito, soprattutto in Africa, con i conti pesantemente in rosso, per quasi 400 miliardi di dollari. E mentre in questo continente il forte debito e il riaccendersi dello jihadismo stanno facendo «fuggire» le banche cinesi, l’India è pronta a colmare il vuoto con generosissimi finanziamenti.
A che è punto è la Nuova Via della seta? Il gigantesco progetto infrastrutturale voluto dal presidente cinese Xi Jinping per avvicinare la Cina al «primo mondo» è definito da Pechino «solido e in piena espansione». Tuttavia, il Covid prima e le tensioni sui mercati per la mancanza di materie poi, suggeriscono un’altra verità. E cioè che questa via – ufficialmente «Belt & Road initiative» – è lastricata di debiti.
Conti in rosso che stanno strangolando le finanze pubbliche di decine di Paesi, per una cifra che si avvicina velocemente ai 400 miliardi di dollari (al momento, 385). Talvolta nascoste dai bilanci ufficiali, le esposizioni economiche di alcuni tra i Paesi in via di sviluppo (come Gibuti, Laos, Maldive, Montenegro per citarne alcuni) rischiano persino il default, con ricadute a dir poco negative in termini politici e di sicurezza sociale.
Secondo uno studio americano pubblicato lo scorso 28 settembre da AidData – un laboratorio di ricerca della Virginia, che per quattro anni ha analizzato gli oltre 13.000 progetti finanziati dalla Cina – la Via della seta è (anche) una via di «perdizione» e di possibile contagio al fallimento, dove però è solo Pechino a potersi permettere il lusso di rischiare.
Brad Parks, senior advisor della società, descrive il sistema così: «L’idea che i finanziatori statali cinesi preferiscano garantire su beni fisici e illiquidi – come porti e reti elettriche – che possono essere sequestrati in caso di default, è un mito dei media. Quei finanziatori sono più avveduti di così. In genere, richiedono che i loro mutuatari mantengano un saldo di cassa minimo in un conto bancario offshore controllato dal creditore. Se un mutuatario è in ritardo sui suoi rimborsi, il prestatore statale cinese addebiterà semplicemente i fondi dal suo conto bancario senza dover affrontare il fastidio di andare davanti a un giudice per recuperare i debiti scaduti».
Non la vede così Antonio Selvatici, docente d’intelligence economica, secondo cui «è un gioco pericoloso, che può direttamente coinvolgere sia l’Italia che l’Europa. Perché? La risposta è in Montenegro, dove la società pubblica China road and bridge corporation sta costruendo una tra le autostrade più costose d’Europa. I conti sembrano non tornare, anche perché dimensionalmente quanto dovuto a Pechino è il doppio del Pil del piccolo Stato balcanico. Come si comporterà la Cina se il Montenegro non è, e non sarà in grado, di restituire il debito? Dal punto della geopolitica, il rischio è che la Cina s’impossessi del porto commerciale e turistico di Bar, che s’affaccia sull’Adriatico».
Per capire meglio, bisogna partire dai numeri e dalle dimensioni del progetto: sinora, sono stati erogati oltre 843 miliardi di dollari, distribuiti a ben 165 diversi Paesi. Coloro i quali si sono lasciati sedurre dalle offerte infrastrutturali cinesi – strade, ferrovie, impianti idroelettrici e gasdotti che mancavano – si sono esposti con la Repubblica Popolare per oltre il 10% del loro Pil. Qualche esempio: a Gibuti, piccola ma strategica nazione africana (dove i cinesi, già nel 2017, hanno aperto una cruciale base militare per proteggere i loro interessi in Africa e Oceano indiano), la quota del debito detenuto da Pechino è passata in un anno dall’82% al 91% sul Pil; mentre nel Kirghizistan, in Asia, la quota del debito pubblico detenuta da Pechino è addirittura balzata dal 37 al 71%.
Stesso scenario in Laos, Maldive, Mongolia, e appunto Montenegro. Così anche in Pakistan, Paese centrale per Pechino e motivo per cui qui la superpotenza ha investito massicciamemente nel porto di Gwadar, al centro di quel corridoio che si estende su 3.218 chilometri e collegherà la regione dello Xinjiang al mare prospiciente il Golfo dell’Oman. L’idea è perfezionare i collegamenti tra le due «nazioni forti della regione» che contendono all’India lo status di superpotenza regionale.
Ma Via della seta significa anche Afghanistan, dove il partito comunista ha già allungato le mani e le cui mire hanno intanto prodotto una massiccia presenza militare. Con i nuovi signori di Kabul, i cinesi hanno iniziato a dialogare già dallo scorso luglio, quando a Tianjin (nord-est della Cina) il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha ricevuto in pompa magna il mullah Abdul Ghani Baradar, vice leader dei talebani. Clima ben diverso da quello riservato due giorni prima a Wendy R. Sherman, vicesegretario di Stato americano, accolto in modo a dir poco gelido. Oggetto del confronto, proprio la «Belt & Road initiative» e il possibile sfruttamento delle enormi ricchezze presenti nel sottosuolo e nelle miniere afghane.
Come ben sanno a Washington, al momento le incognite di questo Paese, martoriato da decenni di guerre civili, sono superiori ai vantaggi e potrebbero presto rappresentare per Pechino un ulteriore passo falso. Come in un domino, insomma, la Via della seta può rappresentare il più grande successo o il maggior fallimento della storia della Cina moderna.
A ulteriore conferma di ciò vi sono le inquietudini di Paesi come Sri Lanka, che ha appena chiesto di rinegoziare i debiti contratti con Pechino; le Maldive stesse, sempre più corteggiate dall’Arabia Saudita; e ancora il Kenya e soprattutto lo Zambia, su cui grava un debito verso la Cina salito a 6,6 miliardi di dollari (il doppio rispetto alle stime ufficiali di due anni fa) e il cui status di «failed State», Stato fallito, potrebbe presto da teoria diventare realtà.
A ulteriore conferma delle perplessità sulla buona riuscita del progetto è l’Africa: lo snodo geopolitico ideale per tessere quella rete fatta di hub, porti e interporti strategici, che il partito comunista e lo stesso Xi Jinping sognano di vedere realizzato a breve per superare nell’immaginario collettivo nazionale la celeberrima Muraglia, l’opera che fece grande la Cina nel mondo.
Secondo i piani di Pechino, le coste orientali africane ospiteranno presto gli approdi delle nuove direttrici marittime e andranno a collegare i grandi porti asiatici con la rete ferroviaria Mombasa-Nairobi, costata già 4 miliardi di dollari, e con la linea Addis Abeba-Gibuti, alla quale sono stati destinati oltre 5 miliardi di dollari. Tali massicci investimenti sono imprescindibili per isolare l’India e rendere sicure le rotte commerciali.
A ciò si aggiungono i corridoi logistici continentali tra il Mali e i porti di Senegal e Guinea, insieme alla «traiettoria» nella regione occidentale del continente attraverso Ghana, Nigeria, Angola e Namibia. Ma è proprio in Africa che i nodi stanno venendo al pettine: i cinesi vi sono entrati da padroni e lo hanno fatto sfruttando manodopera con metodi schiavistici, non rispettando l’ambiente, corrompendo politici e funzionari, e alienandosi le simpatie delle maestranze locali.
Tutti fattori che hanno contribuito a provocare rivolte e hanno fornito benzina al jihadismo africano, esploso tanto in Mali quanto in Nigeria, Congo, Burkina Faso, Niger, Ciad e Somalia. Così come nell’area equatoriale: soprattutto nel Mozambico, il più indebitato del continente, insolvente dal 2017 e con un debito nascosto di quasi 2 miliardi di euro verso società cinesi.
Difficoltà insormontabili nel restituire i soldi e nel gestire la popolazione locale hanno già portato alcune banche del Dragone a ridurre o rifiutare prestiti: così in Angola, Camerun, Ghana, Sud Africa, Egitto, Costa d’Avorio. Mentre l’Etiopia ha chiesto direttamente a Pechino la cancellazione del debito, cercando di farlo passare come un aiuto del G20 «post pandemia». A fronteggiare l’aggressività cinese è solo l’India che, sotto la spinta del primo ministro Narendra Modi, ha aumentato in modo esponenziale i prestiti a tassi calmierati a numerosi Paesi africani per allontanarli da Pechino, mettendo sul piatto 10 miliardi di dollari. Senza contare gli impianti industriali (per un valore di 54 miliardi di dollari), e l’assistenza tecnica in settori cruciali quali le strutture ospedaliere e aeroportuali.
Che l’India faccia sul serio lo dimostrano gli scambi commerciali con l’Africa, che nel biennio 2020-2021 hanno superato i 60 miliardi di dollari, posizionando New Delhi come il quinto investitore assoluto nel continente africano. La sfida continua.
