L’Occidente ha lasciato che la Cina diventasse la fabbrica del mondo. E ora il Dragone è pronto a cambiare le regole del commercio globale, alleandosi con la Russia. L’obiettivo finale, fra il gigante asiatico e gli Usa, non è però né la pace.
Non un esercito, ma il Generale yuan conquisterà il mercato globale. Ammoniva Napoleone, uno che di guerre se ne intendeva: lasciate dormire la Cina perché quando si sveglierà tremerà il mondo. Pechino s’è desta da vent’anni, da quando gli americani dettero il via libera all’ingresso del Dragone nel Wto, l’organizzazione del commercio mondiale. Il progetto, sbagliato, era di far produrre ai cinesi a basso costo ciò che serve e continuare a lucrare sui flussi finanziari. La sveglia suonata nel 2008 con Lehman Brothers non è servita e comunque è stata tardiva.
La Cina in 7 anni aveva già portato il suo Pil da un 1,3 trilioni a quasi 6 trilioni di dollari con una crescita media del 54% all’anno. Era l’11 dicembre del 2001 e mancavano tre settimane all’entrata in vigore dell’euro. George Bush celebrò quel momento come la vittoria del mercato.
Novanta giorni prima erano cadute le Torri Gemelle e per la prima volta l’America si trovava la guerra in casa. Il presidente americano era convinto che con la risposta militare in Afghanistan e poi in Iraq e l’inclusione della Cina, gli Stati Uniti stessero costruendo il nuovo ordine mondiale di cui sarebbero stati i padroni assoluti. Quella certezza vacilla sotto i bombardamenti di Kiev.
Kevin Brady, potentissimo senatore repubblicano ha confessato: «Ero convinto che la Cina avesse bisogno di essere parte di un sistema commerciale basato su regole precise e che gli Stati Uniti ne avrebbero beneficiato nel tempo. Ora è chiaro che la Cina non ha alcuna intenzione di rispettare quelle regole». Pechino quelle regole le vuole cambiare, dettarle a suo comodo.
Userà la moneta, la sua capacità produttiva, l’esser stata designata con miopia dell’Occidente a fabbrica del mondo, l’allargamento delle aree d’influenza e la cooptazione della Russia come giacimento di energia e di materie prime per dettare il nuovo ordine mondiale che sposta definitivamente l’asse della ricchezza a Oriente e confina l’Europa nel retrobottega. A Xi Jinping serviva una guerra – non da lui provocata – per prepararsi a disputare la partita definitiva: è il risiko dei miliardi.
Ancora una volta tardivamente, Joe Biden arriva il 24 marzo in Europa per chiamare Unione e Nato a far fronte comune. È già tardi se si vuole innescare un processo di pace in Ucraina, ma non è questo che interessa. Sa il presidente degli Stati Uniti che il peso delle sanzioni si scarica tutto sull’Europa e sa che Xi Jinping ormai ha attratto a sé la Russia, così come ha in mano gran parte dell’economia ucraina. il presidente americano ha bisogno di dare un avvertimento a Pechino: attenzione che le sanzioni potrebbero colpire anche voi, garantendosi il sostegno dell’Europa.
I mercati asiatici un qualche credo glielo hanno dato visto che stanno vivendo una continua altalena perché la Cina non può permettersi, almeno non adesso, di dare una spallata al commercio mondiale. Anche se il surplus commerciale di Pechino è volato nel 2021 a 676 miliardi di dollari (aumento del 30%) a febbraio di quest’anno ha fatto un ulteriore progresso del 16%. L’anno scorso il gigante asiatico ha avuto un saldo positivo con gli Usa per 385 miliardi con un incremento di 25 punti. Forse anche Biden aveva bisogno di una guerra per cercare di rimettere le cose a posto.
Come «tableau» questo gioco di strategia ha il mondo, come pretesto l’invasione dell’Ucraina da parte di Vladimir Putin, come contendenti il Dragone e lo zio Sam. La posta in gioco non è neutralizzare la Russia, difendere la democrazia, evitare il conflitto globale, la partita serve a stabilire chi comanda sul fronte dei soldi. L’arma decisiva sarà proprio la moneta. La contesa è tra dollaro e yuan. A perdere sarà l’euro che già è alla parità col dollaro, e con esso l’Europa.
La prima mossa l’ha fatta il leader Usa e l’ha sbagliata; esattamente come fece George Bush perché, come insegna Niccolò Machiavelli, «tutti li tempi tornano, gli uomini son sempre gli stessi». Con un eccesso di tracotanza ha escluso la Russia dal sistema di pagamento Swift. Questo ha costretto Vladimir Putin a chiedere alla Cina assistenza monetaria attraverso il sistema alternativo Cips, quello che Xi Jinping vuole utilizzare per cambiare i pesi finanziari.
I russi di fatto hanno già convertito il rublo in yuan (per aggirare le sanzioni comprano tutto e accettano pagamenti dell’energia in moneta cinese) e il fatto che il gas e il petrolio siberiani siano commercializzati in yuan ha spinto anche l’Arabia Saudita, che gli Stati Uniti considerano un alleato affidabile e perciò trascurabile, a prendere in considerazione la divisa cinese.
L’Occidente ha solo una possibile risposta: ridurre la dipendenza dalle fonti fossili aumentando il nucleare. Ma Francia a parte, il pregiudizio sulle centrali atomiche è fortissimo. L’Europa rilancia il Green deal ma senza il nucleare Cina, Arabia e Russia avranno partita vinta anche per le debolezze di Joe Biden che, «ostaggio» dei suoi petrolieri, cerca di fare concorrenza con greggio e gas liquefatto americano. Gioca tuttavia in retroguardia.
Le trattative tra Riad e Pechino vanno avanti da oltre sei anni sul fronte energia, ma oggi il re saudita è deciso ad accettare le offerte di Xi Jinping che, del resto, è il suo miglior cliente. Gli acquista 1,76 milioni di barili al giorno – il secondo fornitore di Pechino è la Russia con 1,6 milioni – a fronte degli Usa che sono scesi da 2 milioni a 500 mila e stanno diventando un concorrente diretto nel mercato del greggio.
I motivi di frizione tra sauditi e americani si sono moltiplicati negli ultimi tempi. Riad considera un tradimento il precipitoso ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan – tutto torna, dunque – è preoccupata dal riavvicinamento tra Usa e Iran per i trattati sul nucleare. Mohammed bin Salman, lo stizzoso figlio prediletto di re Salman, si è offeso per le parole di Biden che ha detto «il regno saudita andrebbe considerato un paria per l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi» tanto da non aver risposto a una telefonata ufficiale del presidente americano. Tutto questo porta a dire che la Cina sta vincendo la mano sul petrolio al punto che gli «yuan-petrol», ovvero futures sul greggio – i contratti a consegna differita che di fatto fissano i prezzi del Brent – sono già trattati sulla piazza di Shanghai e che l’Arabia accetterà in pagamento la moneta cinese.
È l’incontro tra il primo produttore e il primo importatore di greggio a tagliare fuori Washington proprio nel momento in cui Biden ha annunciato che tra le sanzioni contro Putin c’è il blocco delle importazioni di energia della Russia. Se all’America non avere a disposizione il petrolio siberiano non comporta disagio alcuno – il peso delle sanzioni alla Russia è soprattutto a carico dell’Europa, e di Germania e Italia in particolare – vedere intaccato il dollaro come moneta unica di pagamento nel mercato energetico è invece un problema.
Anche perché la politica monetaria di Pechino si fa sempre più aggressiva. La Banca di Cina ha già lanciato lo yuan virtuale che è il primo concorrente del bitcoin. Con un’enorme differenza: il renminbi è una moneta di Stato e la Cina lo può manovrare come vuole: regola i pagamenti con tutti gli Stati satellite e l’offensiva lanciata sul mercato online è spaventosa. Non a caso Xi Jinping ha normalizzato Alibaba, la gigantesca multinazionale del commercio elettronico.
C’è un altro elemento di cui va tenuto in conto nel risiko delle monete. Pechino ha rivalutato lo yuan nei confronti del dollaro per prevenire le mosse della Federal Reserve e rafforzare la competitività della propria moneta (ha guadagnato 10 punti su quella americana); ed è ormai consapevole che non deve svalutare per vendere semplicemente perché gli altri hanno bisogno di comprare, e ha dismesso parte del debito statunitense che deteneva (sono comunque più di mille miliardi di dollari).
Su questo versante l’America non ha finora reagito mentre l’euro sta prendendo botte e ancora ne prenderà visto che la Fed, per contrastare l’inflazione (conseguenza di un’economia Usa in ripresa), rialza i tassi mentre la Bce non potrà fare nulla: l’economia europea tra sanzioni alla Russia, caro energia e inflazione rischia la recessione. La moneta è la matita che traccia la nuova mappa del potere, ma i valori li dà l’economia reale. Basta confrontare l’andamento del Pil dell’ultimo anno. Washington con un +5,7% quota 21 mila miliardi di dollari, il +5,2 dell’Europa vale 14 mila miliardi e mezzo, ma la Cina con +8,1 sorpassa l’Ue con 16.000 miliardi.
La manifattura è ormai di competenza cinese e dei suoi satelliti. La prova? Basti pensare alla Foxconn, il colosso che in tre stabilimenti tra Shenzhen e Zhengzhou produce la metà degli i-Phone venduti nel mondo e può tenere in scacco la Apple. Sempre dal porto di Shenzhen, la Cina controlla le catene di fornitura ed è bastato che le navi restassero in rada per mettere in crisi l’Occidente. Il nuovo ordine mondiale è basato su tre grandi asset e una totale assenza di regole: la forza delle monete, la capacità produttiva, la disponibilità di materie prime e di energia. Aver spinto la Russia verso Pechino crea una posizione di vantaggio per l’Oriente.
C’è un altro player silenzioso, ma decisivo, che entra in gioco proprio per la guerra di Ucraina: è l’India di Narendra Modi. Anch’essa ha bisogno di energia. Putin ha già stretto un accordo con il premier indiano – da sempre gli fornisce armi – per fornirgli petrolio e materie prime a prezzo scontato. Modi paga in rupie che saranno convertire in yuan. Il voto sulla risoluzione dell’Onu che condanna l’attacco della Russia disegna la nuova mappa. Si sono astenuti 35 Paesi: tutto il Sud-est asiatico, l’India, mezza Africa compreso il Sudafrica, i Paesi nemici di Washington in America Latina. Il 60% dell’umanità non condanna Putin.
Lo spartiacque non è autocrazie contro democrazie: basta l’India (un miliardo e 400 milioni di persone) a pareggiare tutti i democratici anti-Putin. La linea di demarcazione è invece tra Paesi sotto influenza americana e quelli sotto influenza cinese, con l’Europa legata alla Nato e sempre più periferica. Secondo il Center of economic and business research (Cebr) che analizza i trend delle maggiori economie nel 2028 questa sarà la top ten: Cina seguita dagli Usa, poi India, Giappone, Indonesia, Corea del Sud, Germania, Brasile, Gran Bretagna e Francia.
La partita che si sta giocando sulle macerie di Kiev è questa. Un primo round si è avuto il 14 marzo scorso a Roma. Per sette ore si sono incontrati il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan e il direttore della commissione Esteri del Partito comunista cinese Yang Jiechi. Hanno parlato dell’Ucraina certo, Biden ha fatto la voce grossa con Pechino, ma non concede a Zelensky la «no fly zone», contro i bombardamenti di Mosca. Non intende sporcarsi le mani; alle viste c’è un colloquio con Xi Jinping.
Resta da capire se stabiliranno le regole d’ingaggio del loro duello o se si metteranno d’accordo sulla guerra di Putin per evitare di farsi reciprocamente troppo male. La Cina un risultato lo ha già raggiunto; ora, come insegna Confucio, può mettersi comoda sulla riva del fiume. Ad aspettare.
