Dalla metallurgia alla farmaceutica, dalle macchine utensili ai materiali da costruzione. E ancora, specializzazioni ed eccellenze nella chimica e nell’alimentare. Si parla, giustamente, della crisi del turismo e della ristorazione, ma poi è la «manifattura» che tiene in piedi l’economia dell’Italia. E che, anche nell’anno più drammatico, non ha perso quote di mercato. La ripresa mondiale è già cominciata: la sfida della nostra ripartenza, ora più che mai, passa da questi settori.
Un cuore di acciaio, di plastica e di cemento. Un corpo robotizzato, riverniciato e anche, ammettiamolo, parecchio chimico. Se l’Italia torna a esportare a pieno regime è anche e soprattutto merito del fatto che è ancora una potenza industriale. Capace di costruire e inventare cose, grazie a una manifattura miracolosamente capace di tenere in piedi un Paese che forse, fino alla pandemia, sognava di campare di bed&breakfast, oltre che di un generico saper vivere. Ma anche per fare l’influencer planetario dei fornelli ci vuole ingegno; e soprattutto, se le padelle le si compra dalla Cina, alla fine tra le mani restano gli spiccioli.
Così, giusto pensare ai famosi ristori di Stato per bar, alberghi e ristoranti. Fondamentale dibattere di green economy, rilancio del turismo e sostegno a cinema e teatri. Lodevole non voltare la faccia di fronte allo sfruttamento evidente di rider e corrieri vari. Ma se l’Italia è ancora in piedi lo deve in massima parte a settori forse non proprio di moda, come il cemento, l’acciaio, i macchinari, i componenti auto, la chimica, la plastica, la gomma, la farmaceutica. È merito loro, della loro tenuta nell’orribile 2020 e della loro ripresa a due cifre in questo primo scorcio di 2021, se siamo ancora la seconda potenza industriale d’Europa, alle spalle della solita Germania.
Che ci sia un disallineamento crescente tra l’agenda politica e i numeri silenziosi dell’industria italiana è sempre più evidente. Ma davvero una nazione da 60 milioni di abitanti può campare solo di bei vestiti, buon cibo, turismo, fiction, aperitivi, monopattini, viaggi e una cultura più esibita che approfondita? Siamo una specie di Disneyland della terza età? Il futuro è davvero tutto «green, light, slow, smart», per ripetere parole d’ordine importate? Chi per mestiere deve spostare enormi capitali da una nazione all’altra, come le banche d’affari, raramente cade nelle trappole modaiole.
A fine marzo, un report di Goldman Sachs sottolineava la straordinaria forza del settore manifatturiero italiano e la stretta integrazione con l’economia tedesca, che ha risentito meno della pandemia. Per questo, nella banca d’affari americana si attendono «una ripresa solida dell’Italia». Peccato che da noi «manifattura» sia quasi una parolaccia.
Un campo di battaglia
Nel 2020, secondo l’Istat, il Pil italiano è crollato dell’8,9 per cento e la pressione fiscale è arrivata al 43,1 (rispetto al 42,4 dell’anno precedente). Per l’Ocse, l’economia della Penisola recupererà il 4,1 per cento quest’anno e il 4 nel 2022, ovvero quattro decimali di punto più della media dell’Eurozona e ben più della Germania, accreditata rispettivamente di un +3 e di un +3,7 per cento. L’ultimo dato complessivo, fornito sempre dall’Istat il 23 marzo, stima che a gennaio il fatturato dell’industria sia salito del 2,5 per cento sul mese precedente (+5 per l’export), anche se è rimasto sotto dell’1,6 per cento rispetto a un anno prima, quando però di Covid-19 si parlava giusto nelle segrete stanze di Pechino. E tra i settori più effervescenti ci sono quelli delle apparecchiature elettriche (+15,4 per cento), dei macchinari e delle attrezzature (+9,8).
Cose che si toccano
I comportamenti di alcune aziende forniscono segnali inequivocabili. E in controtendenza rispetto alla narrazione economica dominante, che fa diventare la consegna delle pizze a domicilio, e la sua regolamentazione, un fattore di sviluppo decisivo solo perché «globale». La Skf, multinazionale svedese dei cuscinetti a sfere, anticipa il ciclo economico come poche altre, visto che i suoi prodotti finiscono sulle auto e sui camion, ma anche sui tram e negli elettrodomestici. Ebbene Skf Italia, con i suoi 15 stabilimenti e 3.600 dipendenti, ha appena annunciato che investirà 40 milioni di euro per un nuovo impianto ad Airasca (Torino), per produrre cuscinetti di precisione, come quelli che si usano per le macchine utensili, i laminatoi, le auto da corsa o le imbarcazioni. Storico fornitore Fiat, è come se Skf Italia avesse detto: ok, noi non solo sopravviveremo, ma faremo anche altro.
A proposito di macchine utensili, robot e automazione, le ultime previsioni di Ucimu-Sistemi, basate su un primo bimestre molto positivo, sono di 5,8 miliardi di fatturato nel 2021 (+16,6 per cento sul 2020), con un aumento del 12 dell’export e un recupero del 23 per cento del mercato interno (2,6 miliardi). Secondo dato doppiamente importante: indica che anche la grande industria italiana chiede più macchinari e nuove linee di produzione per sfornare prodotti che conosceremo più avanti. Lo Stato, però, solo dal 2014 a oggi ha buttato in Alitalia 6 miliardi, anziché aiutare (con meno tasse) le aziende sane a competere all’estero.
Lo zoccolo duro
Riguardo alla fiscalità, mentre la Exor degli Agnelli-Elkann, primo azionista di Stellantis con base in Olanda, investe 540 milioni sulle suole rosse di Louboutin e tratta la vendita dell’Iveco ai cinesi di Faw per tre miliardi e mezzo, l’a.d. del nuovo colosso dell’auto, il portoghese Carlos Tavares, deve decidere che cosa fare di Comau.
Anche questo gioiello della robotica, un miliardo e mezzo di fatturato e centinaia di brevetti pregiati, sta per essere messo sul mercato. Comau è strategica per la produzione di auto elettriche e la riconversione delle linee di produzione, ma sui giornali, in questi mesi, ha fatto notizia solo per i progressi negli esoscheletri. Bellissimi, ma ci si dimentica che per andare avanti servono ancora gli scheletri e quelli dell’industria italiana sono di materiali tradizionali, con industria e costruzioni che valgono un quarto del Pil.
Il dibattito sull’Ilva di Taranto, poi, ha fatto dimenticare a molti che l’Italia è il secondo produttore europeo di acciaio, con oltre 24 miliardi di fatturato e colossi come Marcegaglia, Arvedi e i toscani di Chimet. Federacciai vede in questo inizio 2021 «una domanda vivace» e a gennaio la produzione di prodotti piani è aumentata del 2,8 per cento su base annua. Un anno complicato come il 2020 si è chiuso con una bilancia commerciale in rosso per 2,1 miliardi, ma ha dimostrato che l’Italia dovrebbe produrre 4 milioni di tonnellate in più per il proprio mercato.
Certo, quel 18 per cento di produzione assicurato da Taranto servirebbe, ma prima di dire che la siderurgia italiana muore con Taranto bisognerebbe rifletterci bene.
Non solo formaggi
Poi, ci sono successi che riscuotono molta simpatia. Ai primi di marzo sono stati sospesi per quattro mesi i dazi Usa sul cibo made in Italy e adesso c’è una pioggia di ordini. L’accordo stretto con l’amministrazione Biden, secondo il Consorzio del grana, toglie 16 milioni di euro di dazi su 65 milioni di prodotto. Tutto l’alimentare italiano fattura circa 5 miliardi di euro l’anno negli Stati Uniti, con margini medi del 10 per cento.
Meno noto, però, è che nel 2020 la sola Buzzi Unicem ha venduto cemento e calcestruzzi sul mercato Usa per 1,26 miliardi di euro (+1,5 per cento sul 2019), su un fatturato globale di 3,2 miliardi.
L’ultimo rapporto di Federbeton, la federazione di Confindustria delle imprese che producono cementi e calcestruzzi con un fatturato complessivo di 9 miliardi, prevede per quest’anno una crescita del settore costruzioni del 2,7 per cento. E i cementifici hanno ripreso a lavorare a pieni giri. Ma naturalmente, il cemento fa sognare meno di una forma di parmigiano e nel paese di Topo Gigio è anche comprensibile.
Anche la chimica forse non fa sognare né a scuola né sui social. Nel 2020, quella italiana ha perso il 9 per cento di fatturato, ma non quote di mercato. Così, resta il terzo produttore europeo e il dodicesimo al mondo, con 55 miliardi di euro di giro d’affari e 112 mila addetti (fonte: Federchimica). Un settore già in ripresa a ritmi del 4-5 per cento in quest’anno ancora segnato dai lockdown.
Fornire merci a Bezos
Ok, l’Italia e l’Europa sono fuori dai Big Tech, dai quali faticano perfino a farsi pagare royalty e un po’ di tasse, ma non è che Amazon e Google possano fare tutto da soli. Spostarsi, vestirsi, avere una casa confortevole, nutrirsi e curarsi sono bisogni che richiedono ricerca, materie prime, innovazione e produzione.
Non poter mangiare in pizzerie e ristoranti sta rilanciando gli acquisti di pentole di qualità, caffettiere e ogni genere di aggeggio che possa far sentire chiunque come uno chef della tv. Alla Lagostina di Omegna hanno raddoppiato la produzione, ma gli affari vanno di nuovo a gonfie vele in tutto il distretto della posata del Verbano-Cusio-Ossola. Non solo alla Alessi, che investendo su design e qualità si è sottratta per tempo alla concorrenza cinese. A casa si vuol stare più comodi e così tutto il settore degli elettrodomestici si attende aumenti a doppia cifra.
Nel 2020, secondo Applia, l’associazione che raccogli i produttori di elettrodomestici, frigoriferi e lavatrici hanno tenuto (+1 per cento), ma le vendite dei piccoli elettrodomestici, dalle impastatrici agli strumenti per la depilazione, sono saliti del 19. Mentre le lavastoviglie hanno fatto segnare un insperato più 13 per cento di vendite.
Si fa presto a dire «deindustrializzazione»
Visto che siamo sempre costretti a misurarci con il Covid-19, al di là dei vaccini, non è mai tardi per ricordare che la nostra industria farmaceutica è ben piazzata in tantissime catene di valore, è leader in Europa insieme ai tedeschi e con 35 miliardi di fatturato annuo non è troppo lontana da un altro comparto poco celebrato come quello dei componenti auto (49 miliardi), che da almeno vent’anni non vive di solo Fiat, ma lavora in stretta connessione con la Germania.
Così come non poteva certo essere popolare la classifica di dicembre dei settori più dinamici: gomma e materie plastiche (+10,9 per cento sul mese precedente), prodotti chimici (+7,5) e apparecchiature elettriche (+6,8 per cento). Anche lo storytelling più fantasioso, di fronte alla guarnizione in gomma, si ferma. Ma non dovrebbe essere imitato da chi ha in mano le redini della politica industriale. Con un Paese che è ancora la settima potenza industriale del mondo, c’è ancora chi parla di «deindustrializzazione». Guardando la copertina di Panorama di un paio di settimane fa, dedicata alla «Razza predona», viene quasi da pensare che la favoletta della deindustrializzazione faccia comodo solo a chi è scappato dall’Italia, vive di sussidi e Cig, o si è venduto le aziende per mettersi a incassare pedaggi e bollette.