L’incontro 2024 tra i potenti è lo specchio di un pianeta cambiato. Passati il tempo e i personaggi che aprivano ai dittatori, oggi domina il realismo. Che guarda all’America.
L’edizione che si è appena conclusa del World economic forum (Wef) ha segnato una cesura netta rispetto al passato. L’applauso scrosciante tributato al grintoso neopresidente argentino Javier Milei e alla sua pugnace difesa del capitalismo è certamente un indizio, ma c’è molto di più come ha scritto la scorsa settimana Walter Russell Mead sul Wall Street Journal. All’apparenza, al timone della prestigiosa organizzazione resistono i volti di sempre: il tedesco Klaus Schwab, potente deus ex machina del Wef, e il norvegese Borg Brende, con il loro usuale areopago di guru economici, accademici, capitani d’industria e finanzieri. Si tratta dello stesso esclusivo club che, fino a poco fa, fungeva da cassa di risonanza del merkelismo di rigore. Non solo: Davos era anche il lavacro in cui si immergevano, acquisendo legittimità e presentabilità, il capitalismo di Stato e il capitalismo autoritario. I destini di Davos e merkelismo sono stati a lungo incrociati. Ecco perché.
Con Merkel riscuoteva grande successo l’idea che, commerciando con dittatori e autocrati, sia in qualche maniera possibile addolcirli, incivilirli. Nell’autunno del 2015, il settimanale americano Time incoronava proprio la cancelliera tedesca come «Persona dell’anno». Per molto tempo è stata lei l’icona della «Davoiserie», la comunità di ricchi e potenti che con cadenza annuale si riunisce nell’idillico ritrovo alpino svizzero. A Merkel, sia detto, questo ruolo calzava a pennello. La riunione dei potenti nel Cantone dei Grigioni, infatti, ha rappresentato la suggestiva scenografia di un unico grande mercato in cui scambiare con chiunque e ovunque. Quello che Thomas Friedman descriveva nel suo celebre saggio dei primi anni Duemila, The World is Flat.
Lo stesso grande cerimoniere del Wef è un tedesco, Klaus Schwab, che con Merkel ha sempre avuto un filo diretto. Merkel fu colei che accettò l’abbraccio sempre più stretto con la Russia di Putin e la Cina di Xi, pur consapevole della torsione autoritaria di entrambe nonché dei rischi per Europa e Germania. Quanto a Davos, ha lungamente celebrato Xi Jinping come eroe di una forma alterata di capitalismo, in cui la promessa di prosperità procede di pari passo con la privazione di libertà. Ancora oggi, si registra una forte tensione tra chi accetta di vivere in un mondo nuovo in cui non è più possibile fare «business anywhere with anyone», con chiunque e ovunque, e chi invece prova a differire l’addio al vecchio mondo. Per una volta, in Occidente, la politica sembra essere qualche passo più avanti rispetto a settori dell’industria che non vogliono o non riescono ad adeguarsi alla nuova realtà globale. Il caso più eclatante è forse quello di Herbert Diess, ormai ex amministratore delegato di Volkswagen, primo gruppo automobilistico al mondo. Quando ancora era in sella, Diess diede una lunga intervista al quotidiano economico tedesco Handelsblatt, negando di voler sbaraccare dallo Xinjiang in Cina e sostenendo addirittura che la presenza di Volkswagen nella regione aveva «ricadute positive». Per un verso, quindi, oggi può dirsi archiviata la lunga fase di Merkel al potere, e l’impostazione mercantilista e «agnostica» che l’ha contrassegnata. Quanto all’altro idolo storico di Davos, la Cina, è ormai capofila di un blocco di potenze autoritarie che si contrappongono al capitalismo democratico e ai suoi alleati.
Nel frattempo, tuttavia, a fronte dell’autoritarismo cinese si accavallano problemi economici di vario tipo che spaziano dal declino demografico alla bolla immobiliare, all’eccesso di capacità manufatturiera. Per un altro verso, la guerra in Ucraina, i conflitti in Medioriente e lo spettro del caos in Oriente (leggi: Taiwan invasa o soffocata dalla stessa Cina) fanno sì che il pubblico di Davos rivaluti il ruolo dell’America. Forse non per convinzione o slancio intellettuale, ma perché senza la potenza americana verrebbe meno il privilegio stesso di chi fa pellegrinaggio a Davos. Senza le portaerei americane, insomma, l’Homo davosiensis non potrebbe nemmeno esistere. Avanti di questo passo, e tra le Alpi svizzere ci sarà una gran voglia di reaganismo.
L’autore, Francesco Galietti, è un esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar
