Il taglio deciso dal governo alla rivalutazione degli assegni dai 2 mila euro in su può scatenare un’ondata di cause per incostituzionalità. Con un’inflazione così alta che cosa deciderà la Corte?
Accomodatevi, sarà uno spettacolo interessante. Protagonisti, da una parte i pensionati «ricchi» della mitica classe media e dall’altra il governo Meloni, che di quella classe dovrebbe essere paladino e invece l’ha colpita con un taglio secco alla rivalutazione delle pensioni. Risultato: potremmo assistere a una raffica di cause contro il provvedimento dell’esecutivo, per arrivare davanti alla Corte costituzionale e farlo annullare.
Tra i primi a muoversi è la Uilp, il sindacato Uil dei pensionati, che ha chiesto ai suoi avvocati e ai legali Uil «di fare tutte le verifiche necessarie e, una volta effettuate, ha dato loro mandato di mettere in campo qualsiasi azione, legale e giudiziaria, con l’obiettivo di arrivare al ricorso alla Corte costituzionale che possa rendere giustizia alle pensionate e ai pensionati danneggiati dal taglio della rivalutazione». L’ipotesi potrebbe essere quella di presentare alcuni ricorsi pilota come Uilp nazionale per le varie tipologie di pensionati cui è stato ridotto l’adeguamento all’inflazione. Anche la Cida, il sindacato dei dirigenti, è sul piede di guerra.
La ragione è questa: come già denunciato da Panorama, per il biennio 2023-2024 la legge di Bilancio approvata nel dicembre scorso iper-rivaluta i trattamenti al minimo, garantisce rivalutazione piena alle rendite fino a 4 volte il trattamento minimo e taglia in maniera progressiva gli adeguamenti agli assegni di importo superiore. In pratica, l’adeguamento all’inflazione sarà pari all’80 per cento per le pensioni da 4 volte a 5 volte il minimo (da 2.102 a 2.627 euro lordi); al 55 per cento per gli assegni da 2.627 euro a 3.152 euro; al 50 per cento tra quest’ultimo importo e 4.203 euro; al 40 per cento fino a 5.254 e al 35 per cento per gli importi superiori. «Il grave» sottolinea il centro studi Itinerari previdenziali, guidato da Alberto Brambilla, «è che la perequazione sfavorevole avverrà per fasce (sull’intero reddito pensionistico con un’unica aliquota) e non per scaglioni (come avviene per la tassazione con aliquote graduali applicate sulle quote del reddito pensionistico): vale a dire che un pensionato con una rendita tra 3.152 euro e 4.203 euro lordi si vedrà rivalutata l’intera pensione solo al 3,65 per cento. Gli effetti di questa manovra sono molto pesanti sul medio-lungo termine: nel decennio dal 2024 al 2033, ha calcolato Itinerari previdenziali, ipotizzando un’inflazione prudenziale del 2 per cento, le rendite di 2.500 euro lordi perdono circa 13 mila euro, quelle da 5.253 euro addirittura 69 mila euro».
Secondo Brambilla, l’applicazione all’intera pensione della rivalutazione così come proposta dalla Legge di bilancio «presenta evidenti profili di incostituzionalità». Tesi condivisa da Fernando Di Nicola, già dirigente nella Direzione studi Inps, consigliere per le politiche fiscali al Mef, ricercatore per le politiche fiscali e sociali all’Isae, Istituto di studi e analisi economica: «La concatenazione pluriennale delle riduzioni (che pare prospettare una deindicizzazione ormai strutturale)» ha scritto Di Nicola sul sito Lavoce.info «e il coinvolgimento delle pensioni interamente contributive in precedenza escluse paiono delineare ragioni di illegittimità costituzionale, per una misura volta a fare cassa».
Di Nicola ricorda che vengono colpite pensioni da 1.600 euro mensili netti in su, non certo «pensioni d’oro», e indica come «ulteriore causa di perplessità» sulla manovra la natura e la condizione di pensionato: «Quando si va in pensione cambia profondamente, e in misura crescente col tempo, la capacità di reagire agli eventi economici avversi, come l’inflazione. Il pensionato non ha la possibilità di variare i prezzi dei propri servizi, come può accadere agli autonomi, o contrattare i recuperi dell’inflazione, come può accadere ai dipendenti. Nella decisione sul pensionamento (quando consentito) entra dunque anche la valutazione del potere di acquisto, atteso come costante fino alla morte, proprio in virtù dell’indicizzazione».
Ma i continui interventi dei governi sulla rivalutazione degli assegni hanno ridotto quel potere di acquisto su cui hanno fatto affidamento gli ex-lavoratori. E ora che l’inflazione corre oltre il 10 per cento, i tagli fanno più male. Per questo Brambilla di Itinerari previdenziali parla di «inaffidabilità dello Stato sulle promesse a lungo termine sulle pensioni e soprattutto su quelle che in misura sempre maggiore sono calcolate col metodo contributivo». Di fronte alla possibili cause davanti ai tribunali l’Inps di Pasquale Tridico deve iniziare a tremare? Non è detto. Quando alcuni pensionati fecero ricorso contro le misure introdotte dalla legge di bilancio 2019 dal governo Conte 1, che frenavano e, oltre certi importi, bloccavano la rivalutazione dei trattamenti pensionistici, la Consulta diede loro torto: ritenne infatti costituzionalmente legittimo il provvedimento con cui il legislatore può «raffreddare» la rivalutazione automatica delle pensioni di elevato importo, a condizione che la finalità della misura sia il perseguimento di obiettivi interni al sistema previdenziale aventi un orizzonte temporale predefinito (nella specie triennale). Ora però l’inflazione è elevata e gli interventi a danno dei pensionati continuano da anni: la Corte potrebbe cambiare idea. Vedremo. Intanto preparate i popcorn.
