L’olio di girasole per realizzare questi (e altri) prodotti arriva da Ucraina e Russia. Pessima notizia per le nostre industrie.
Chissà chi ricorda la scena in cui Sophia Loren e Marcello Mastroianni s’inseguono attraverso campi sterminati di girasoli. Vittorio De Sica scelse il Donbass per girare, primo occidentale dopo il 1945, il suo capolavoro tra Russia e Ucraina: I girasoli. Erano e sono il simbolo di quelle terre, e una loro fonte di ricchezza. Ora per noi sono un enorme problema agricolo-produttivo.
Il «crack» del crackers spiega da solo le contraddizioni della globalizzazione, la miopia dell’Europa, la debolezza dell’Italia. Basta prendere gli ingredienti di quelle sfogliette salate che furono la merenda dell’Italia del boom. Su un etto di prodotto ci sono 95 grammi di farina, olio di girasole, sale, estratto di malto d’orzo e mais, carbonato acido di sodio, farina di orzo maltato, lievito madre e lievito.
In questo italianissimo prodotto, frumento e orzo arrivano dalla Russia, mais e olio di girasole dall’Ucraina, mentre il metano russo serve per cuocerli. La globalizzazione ha fatto del mondo un enorme discount dove si compra al prezzo più basso, a Bruxelles pensano che l’agricoltura non serve tanto ci pensano gli altri, e si predica di aumentare del 10 per cento la superfice incolta per ragioni ambientali. La debolezza dell’Italia sta nel fatto che abbiamo il più forte agroalimentare del mondo come qualità, ma non coltiviamo abbastanza. Produciamo appena il 36 per cento del grano tenero che ci serve, il 53 del mais, il 51 della carne bovina, il 56 per cento del grano duro per la pasta, il 63 per cento della carne di maiale; ma il settore dove siamo assolutamente deficitari è quello degli oli vegetali, nonostante produciamo l’extravergine migliore del mondo.
Siamo passati da circa 500 milioni di tonnellate a poco meno di 300, il nostro extravergine copre il 40 per cento dei consumi di questa tipologia di olio e molti coltivano in perdita. Ma il serbatoio Ucraina ci copriva il fabbisogno di olio di girasole. Tra gli oli vegetali, si tratta del più simile (se si eccettua quello di vinacciolo, che però costa un occhio) all’extravergine di oliva. Contiene tocoferoli – ossia vitamina E -, acido oleico e linoleico, quindi molti grassi monoinsaturi e polinsaturi; e ora se ne fa un tipo «alto oleico» che rivaleggia, quanto a vitamina E, con quello estratto dalle olive.
Per l’industria alimentare è stata la svolta, si sono in gran parte abbandonati gli altri oli vegetali (arachide e mais a parte che hanno buone caratteristiche) e si è riusciti a realizzare migliori fritture. Con il girasole si produce di tutto: dalle patatine ai grissini, dai biscotti ai sott’oli, dalla maionese alle salse. Perfino i paté hanno bisogno di questo «grasso del sole». L’olio di girasole si compra quasi tutto in Ucraina e, in misura minore, in Russia. Questi due Paesi producono il 60 per cento dell’olio mondiale e detengono quasi il 75 per cento dell’esportazione. Ma ora il prodotto è fermo nei porti di Odessa e Mariupol dove si stima ci siano navi bloccate in banchina con almeno 50 mila tonnellate di olio, e si annuncia una crisi pesantissima.
L’allarme viene da Assitol, l’associazione delle industrie olearie. Dice Carlo Tampieri, che si occupa degli oli di semi in questa associazione: «La guerra sta mettendo in ginocchio il nostro settore e fa male ai consumatori, perché rende difficile l’approvvigionamento di materia prima e, quindi, l’attività delle singole imprese». Tra le nostre piccole aziende agroalimentari, soprattutto chi fa frittura e conserve, c’è chi rischia di chiudere se non arriva l’olio di girasole ucraino, che serve anche all’industria della cosmetica e alle bioenergie, a partire da biodiesel, la sola alternativa al gasolio addizionato con Ad-blue (l’urea) diventato introvabile e carissimo. Ma non c’è modo di sbloccare le forniture.
Noi importiamo da Odessa e Mariupol 770 mila tonnellate all’anno (la dipendenza dall’Ucraina è passata in dieci anni dal 54 al 63 per cento) perché la nostra produzione non riesce ad andare oltre le 250 mila tonnellate di olio di girasole. È lo stesso paradigma del gas. Abbiamo costruito i nostri successi economici sulla sabbia, e oggi paghiamo carissimi gli altri oli vegetali di infinitamente minore qualità. Quello di palma è arrivato a mille euro a tonnellata (+150 per cento), quello di soia, adattissimo anche come bio carburante, è a 750 euro la tonnellata con un rincaro del 70 per cento; persino lo strutto (grasso animale) è a 450 euro a tonnellata con un incremento del 68 per cento in un anno, e un balzo del 20 per cento nelle ultime due settimane. Se però per il gas basta riaprire i rubinetti per far crescere la produzione, per l’olio di girasole non è così. Queste sono le settimane della semina e il prossimo settembre non si raccoglierà nulla e dunque non ci sarà l’olio. Perché dove scoppiano le bombe non nascono fiori, tanto meno quelli del girasole.