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Casa, impossibile casa

Casa, impossibile casa

Per acquistarne una a Milano sono necessari 17 anni di stipendio. Nelle grandi città italiane il prezzo delle abitazioni lievita a livelli spesso irraggiungibili per i redditi, con una tendenza simile alle metropoli mondiali. E all’orizzonte ci sono anche gli adeguamenti alle normative sull’ambiente prescritti dalla Ue. Così l’appartamento di proprietà più che una legittima aspettativa diventa un miraggio.


Palazzetto dello sport nell’hinterland milanese, in uno di quei comuni-dormitorio che circondano il capoluogo lombardo con i loro giganteschi condomini e i muri coperti di scritte. È in corso un’interminabile competizione di judo tra bambini e ragazzi e, a un certo punto, la persona che siede accanto se ne esce con questa riflessione: «È quando si viene in questi posti che ci si rende conto come Milano stia diventando sempre più simile alle città americane».

Chi parla è una signora che abita nella zona dei Navigli, ricca di negozietti, ristoranti e vita notturna. Madre di uno dei giovani concorrenti, è una professionista, laureata alla Bocconi, si occupa di formazione e in passato ha vissuto a New York e a San Francisco. Che cosa intende dire con quelle parole? «Che è sempre più evidente la spaccatura tra chi può permettersi di stare in ambito urbano e chi invece non ce la fa».

È probabile che la sua esperienza a San Francisco sia stata particolarmente istruttiva e scioccante: la città californiana è una delle più belle al mondo, fulgido esempio di tolleranza e di apertura mentale. Ma dietro la sua patina luminosa c’è una realtà drammatica che colpisce anche il turista più distratto: quella delle migliaia di homeless che occupano le ripide strade della metropoli. A squarciare il velo sui guai che affliggono l’iconico epicentro del «Golden State» è il libro California (Mondadori) scritto dal giornalista Francesco Costa, vicedirettore del sito il Post: l’autore descrive la crisi abitativa che da anni colpisce lo Stato più avanzato degli Usa. Nelle città le case sono in numero insufficiente rispetto alla domanda e di conseguenza hanno costi altissimi. Così la classe media è costretta a vivere lontano dai luoghi di lavoro e a trascorrere diverse ore al giorno per gli spostamenti. Costa racconta di infermieri e poliziotti che dormono in auto per risparmiare ore di viaggio tra un turno e l’altro.

A causare questa situazione è stato l’orientamento ambientalista dei californiani e dei democratici, al potere da decenni, che impedisce la costruzione di nuove abitazioni o di palazzi più alti: le regole dello Stato impongono la costruzione di case solo se sostenibili, integrate nell’ambiente e rispondenti a tali e tanti parametri da rendere nei fatti impossibile la realizzazione di qualsiasi edificio.

La California rappresenta un caso limite. Ma è anche un ammonimento per tanti amministratori che guidano estese, moderne e attrattive metropoli: i loro abitanti vogliono vivere in ambienti sempre più curati, con quartieri sempre più belli e servizi sempre più efficienti. Con il risultato che le abitazioni costano sempre di più e la classe media viene gradualmente espulsa fuori dalle città. Solo chi ha i soldi può viverci. Tranne casi rari, l’edilizia pubblica è in ritirata, i privati dominano il mercato immobiliare e i prezzi sono inavvicinabili. È un problema che riguarda molte città, non solo americane.

A Parigi occorrono oltre 23 annualità di uno stipendio medio per acquistare un appartamento di 75 metri quadrati, a Lisbona quasi 15, a Madrid 12, a Roma più di 10. Da uno studio di Assoutenti, basato sugli ultimi dati dell’Istat sui prezzi degli immobili, risulta che a Milano servirebbero 17 anni di stipendio per comprare una casa di 70 metri quadri. Nel capoluogo lombardo un appartamento di quelle dimensioni costa in media 363.930 euro. Per la stessa abitazione si spendono a Roma 232.260 euro, a Torino 134.680 euro. Secondo Assoutenti significa che, ipotizzando uno stipendio netto mensile di 1.800 euro, per acquistare una abitazione a Milano occorrono oggi 16,8 anni di stipendio, contro i 10,7 anni di Roma e i 6,2 anni di Torino. Con quotazioni che possono superare i 10 mila euro al metro quadro, la metropoli guidata dal sindaco Giuseppe Sala è la più cara d’Italia.

Ermanno Ronda, segretario provinciale del Sicet, il sindacato degli inquilini della Cisl, ha espresso così il suo punto di vista al sito giornalismo internazionale Investigate Europe: «Negli anni Settanta questa città accoglieva le classi operaie. Poi il settore immobiliare si è via via liberalizzato. Grandi eventi come l’Expo nel 2015 hanno contribuito a cambiare la città e a espellere tutti coloro che non possono stare sul mercato delle locazioni e soprattutto della compravendita. A livello nazionale la legge sugli affitti lascia la libertà al proprietario di fissare il canone. Risultato: a Milano solo lo 0,6 per cento degli affitti è «concordato» (canone ridotto in cambio di tasse al 10 per cento per il proprietario). Il sistema del canone ridotto dovrebbe aiutare la classe media, troppo ricca per una casa popolare e troppo povera per abitare a Milano. Ma nessuno lo utilizza».

Il sociologo Fabio Colombo dell’Università degli Studi di Urbino sottolinea sul blog Le Nius i limiti dell’edilizia sociale italiana e cita alcuni esempi virtuosi all’estero: «Ci sono città, come Stoccolma e Vienna, dove la casa pubblica è un obiettivo anche della classe media. A Stoccolma ci sono famiglie giovani, benestanti, “cool”, che aspettano anche 15-20 anni pur di vedere realizzato il loro sogno di una casa pubblica. Insomma, un concetto di edilizia pubblica, e non sociale, in grado di rispondere ai bisogni di diverse fasce della popolazione. Certo, per applicarlo bisogna che l’ente pubblico possegga grandi quantità di alloggi». Cosa che, con il crollo degli investimenti, in Italia non accade. I sindaci stanno naturalmente cercando di creare quartieri dove una parte degli alloggi è di proprietà pubblica in modo da poter offrire abitazioni a prezzi più umani, ma i numeri sono modesti rispetto alla domanda.

Il tema della casa costosa non investe solo Milano: nelle grandi città italiane servono in media 6,9 annualità di stipendio per comprare un appartamento, stima l’ufficio studi del gruppo Tecnocasa. E nel 2022 le quotazioni hanno fatto un salto in avanti: lo scorso anno i prezzi delle abitazioni acquistate dalle famiglie sono cresciute in media del 3,8 per cento. Un aumento record, che tiene conto del balzo delle case nuove (più 6,1 per cento) mentre le quotazioni degli immobili esistenti sono salite del 3,4 per cento. Non solo. Con l’incremento dei tassi di interesse i mutui sono più cari e così l’appartamento diventa un miraggio. All’orizzonte incombe poi l’adeguamento degli immobili alle normative europee: in marzo il parlamento di Strasburgo ha approvato la direttiva Case green il cui obiettivo è ridurre drasticamente le emissioni di gas a effetto serra e il consumo finale di energia nel comparto dell’edilizia in tutti i Paesi dell’Ue entro il 2030 e di renderlo climaticamente neutro entro il 2050. Gli edifici rappresentano infatti il 40 per cento del consumo energetico in tutta l’Unione, da cui deriverebbero anche il 36 per cento delle emissioni di CO2. La direttiva prescrive che le costruzioni residenziali siano in classe E entro il 2030 e in classe D entro il 2033, mentre tutti i nuovi edifici costruiti dal 2028 dovranno certificare «emissioni zero».

Ammesso che queste norme entrino davvero in vigore, si tratterebbe di una mazzata per molti italiani: il 62 per cento del nostro patrimonio abitativo si trova infatti nelle classi energetiche F o G, quelle più basse, e inoltre nel nostro Paese le persone che vivono in una casa di proprietà sono il 72,9 per cento della popolazione, contro una media europea del 69,5 per cento e il 45,7 per cento della Germania, dove chi paga le ristrutturazioni sono le società. Gianni Silvi, amministratore delegato della Silvi Costruzioni Edili, calcola che in una palazzina di quattro piani costruita negli anni Ottanta, il passaggio dalla classe G alla classe D comporterebbe un costo medio di circa 60 mila euro per un appartamento da 100 metri quadri, includendo l’intervento sull’involucro esterno, pareti, copertura e solaio. Se invece si trattasse di una casa singola, a parità di superficie i costi raddoppierebbero. E se si dovesse adeguare alla direttiva europea un villino di circa 200 metri quadrati in classe G, si arriverebbe a spendere anche 180 mila euro.

Forse sono stime esagerate. E comunque la normativa europea non tiene conto delle peculiarità italiane: non solo molte case storiche, ma anche temperature diverse. Come fa notare in una puntata del podcast Transition Paolo Mazzoni, responsabile Public Affairs di 3M Italia, società che ha sviluppato delle pellicole da applicare alle finestre per ridurre l’irraggiamento solare, «l’impianto europeo ha un’impostazione nordica, è molto concentrato sul risparmio energetico che si può ottenere dal riscaldamento mentre trascura l’energia utilizzata per raffrescare le case, un tema che riguarda sempre di più i Paesi del Mediterraneo. I giorni in cui serve riscaldare sono di meno rispetto a quelli dove bisogna raffrescare. E quest’ultimo processo richiede molta più energia dell’aumentare la temperatura con un rapporto di tre a uno» Sta di fatto che, direttiva o no, in futuro la casa sarà oggetto di investimenti per essere più efficiente. E quindi ancora più bella e impossibile.

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